L’Europa, e la Gran Bretagna in particolare, hanno fatto di recente alcuni passi avanti importanti nelle nuove regole bancarie e finanziarie. E gli Stati Uniti, che da un secolo o quasi hanno la leadership finanziaria mondiale, stanno purtroppo facendo qualche passo indietro.
Le banche europee tremano perché hanno troppi titoli pubblici di dubbio valore, quelli greci in testa, acquistati con leggerezza quando si pensava che l’euro avesse equiparato il rischio sui mercati. Quelle americane, meglio capitalizzate in genere, si dichiarano più solide ma non dicono quanti titoli immobiliari di ancor più dubbio valore, e in ben maggiore quantità, hanno in pancia, creati a velocità folle quando la four bedrooms home era il nuovo Eldorado, con commissioni succulente. Poco meno di 5mila miliardi le banche, e 11mila l’intero sistema.
Washington non riesce o non vuole imporre regole più stringenti. In Europa forse la politica ci sta provando. Il 12 settembre la Icb britannica (Independent commission on banking), presieduta dall’ex capo economista della Banca d’Inghilterra, sir John Vickers, ha delineato il suo piano in 360 pagine. Un firewall, una paratia antincendi, tra raccolta del risparmio più crediti sul mercato interno e attività globali di investimento e trading. Una «separazione strutturale» necessaria «affinché siano le banche in difficoltà a subire le perdite, e non il contribuente». Londra ha speso o investito 850 miliardi di sterline dal 2007 per salvare il sistema. In più la Icb prevede regole più stringenti di quelle di Basilea 3 su capitale e riserve per far fronte alle perdite.
Il cancelliere dello Scacchiere ha approvato le direttive. Il mondo bancario le ha criticate. Le imprese osservano che il credito sarà più caro, e chiedono se ne tenga giustamente conto. La legge dovrà essere votata entro la legislatura, entro il 2015. E, come da impegni in sede G-20, dovrà essere a regime col gennaio 2019. Tempi lunghi necessari a cambiamenti forti.
Con il 2019 saranno nel pieno anche le norme europee annunciate dalla Commissione il 20 luglio scorso, e composte da una direttiva che sostituisce sui requisiti di capitale quelle del 2006 e da un regolamento che disciplina l’azione creditizia e di investimento finanziario. L’obiettivo è armonizzare le regole nazionali, entro certi limiti. E rafforzare quanto previsto da Basilea 3. Le regole di Basilea non stanno bene invece al primo banchiere americano, Jamie Dimon di JPMorgan, spesso interprete del sentire di tutto il big banking. Jamie Dimon lo ha detto il 12 settembre al Financial Times, dichiarando le regole di Basilea 3 «blatantly anti-American». Bruxelles e Londra si muovono nella logica di un Basilea 3-plus, Wall Street e purtroppo anche Washington, nei fatti, su quella di un Basilea 3-minus.
Banche sane o “sani”, che in inglese vuol dire anche “consistenti”, dividendi per i loro azionisti? Se lo chiede Felix Salmon su Reuters, dove definisce anche il progetto Icb una «Volcker-rule on steroids», una Volcker-rule al cubo. La Volcker-rule è uno dei tre principi fondamentali nelle oltre 2000 pagine della Dodd-Frank, e prevede una notevole separazione fra raccolta del risparmio e investimenti bancari, cosa chiesta a gran voce tra l’altro dal sistema delle banche piccole e medie, schierate spesso contro Wall Street.
Il primo principio, l’estensione di regole e controlli anche allo shadow-banking, è importante ed acquisito. Il secondo, regole sui derivati, è incerto e contraddittorio. La Volcker-rule subisce continui rinvii. Doveva scattare nel luglio 2012, ma le banche non la vogliono. Tutta l’applicazione della Dodd-Frank, che contiene linee-guida in attesa di oltre 160 regolamenti, è in cronico ritardo. Il 90% delle regole sono inesistenti o incomplete. Le banche frenano e Washington, ormai sotto elezioni, non accelera. Nel Dodd-Frank Progress Report dello studio Davis Polk si può vedere, sul web, la voluta lentezza del tutto. Secondo il deputato democratico Barney Frank, con il senatore democratico Chris Doddautore della legge e entrambi assai vicini al mondo della finanza, i repubblicani contano sull’appoggio di Wall Street per vincere le elezioni 2012 e svuotare poi definitivamente la riforma. I democratici, che nel 2008 ebbero da Wall Street forti aiuti, sono fermi alla linea espressa da Barack Obama quando nell’inverno 2009 ricevette i banchieri e ricordò loro che «c’è solo la mia amministrazione tra voi e i forconi della gente inferocita».
In mezzo a queste due strategie non troppo dissimili, c’è un’America che ha nel direttivo Fed, al Congresso e altrove voci sagge che vorrebbero una ben diversa riforma, ma non riesce a farle prevalere, ed è ben diversa da quella che negli Anni 30 seppe dettare regole finanziarie imitate poi da tutti. Oggi c’è chi guarda più indietro che avanti. E questo sì è “un-American”.
Fonte: Il Sole-24 Ore
L’Europa, e la Gran Bretagna in particolare, hanno fatto di recente alcuni passi avanti importanti nelle nuove regole bancarie e finanziarie. E gli Stati Uniti, che da un secolo o quasi hanno la leadership finanziaria mondiale, stanno purtroppo facendo qualche passo indietro.
Le banche europee tremano perché hanno troppi titoli pubblici di dubbio valore, quelli greci in testa, acquistati con leggerezza quando si pensava che l’euro avesse equiparato il rischio sui mercati. Quelle americane, meglio capitalizzate in genere, si dichiarano più solide ma non dicono quanti titoli immobiliari di ancor più dubbio valore, e in ben maggiore quantità, hanno in pancia, creati a velocità folle quando la four bedrooms home era il nuovo Eldorado, con commissioni succulente. Poco meno di 5mila miliardi le banche, e 11mila l’intero sistema.
Washington non riesce o non vuole imporre regole più stringenti. In Europa forse la politica ci sta provando. Il 12 settembre la Icb britannica (Independent commission on banking), presieduta dall’ex capo economista della Banca d’Inghilterra, sir John Vickers, ha delineato il suo piano in 360 pagine. Un firewall, una paratia antincendi, tra raccolta del risparmio più crediti sul mercato interno e attività globali di investimento e trading. Una «separazione strutturale» necessaria «affinché siano le banche in difficoltà a subire le perdite, e non il contribuente». Londra ha speso o investito 850 miliardi di sterline dal 2007 per salvare il sistema. In più la Icb prevede regole più stringenti di quelle di Basilea 3 su capitale e riserve per far fronte alle perdite.
Il cancelliere dello Scacchiere ha approvato le direttive. Il mondo bancario le ha criticate. Le imprese osservano che il credito sarà più caro, e chiedono se ne tenga giustamente conto. La legge dovrà essere votata entro la legislatura, entro il 2015. E, come da impegni in sede G-20, dovrà essere a regime col gennaio 2019. Tempi lunghi necessari a cambiamenti forti.
Con il 2019 saranno nel pieno anche le norme europee annunciate dalla Commissione il 20 luglio scorso, e composte da una direttiva che sostituisce sui requisiti di capitale quelle del 2006 e da un regolamento che disciplina l’azione creditizia e di investimento finanziario. L’obiettivo è armonizzare le regole nazionali, entro certi limiti. E rafforzare quanto previsto da Basilea 3. Le regole di Basilea non stanno bene invece al primo banchiere americano, Jamie Dimon di JPMorgan, spesso interprete del sentire di tutto il big banking. Jamie Dimon lo ha detto il 12 settembre al Financial Times, dichiarando le regole di Basilea 3 «blatantly anti-American». Bruxelles e Londra si muovono nella logica di un Basilea 3-plus, Wall Street e purtroppo anche Washington, nei fatti, su quella di un Basilea 3-minus.
Banche sane o “sani”, che in inglese vuol dire anche “consistenti”, dividendi per i loro azionisti? Se lo chiede Felix Salmon su Reuters, dove definisce anche il progetto Icb una «Volcker-rule on steroids», una Volcker-rule al cubo. La Volcker-rule è uno dei tre principi fondamentali nelle oltre 2000 pagine della Dodd-Frank, e prevede una notevole separazione fra raccolta del risparmio e investimenti bancari, cosa chiesta a gran voce tra l’altro dal sistema delle banche piccole e medie, schierate spesso contro Wall Street.
Il primo principio, l’estensione di regole e controlli anche allo shadow-banking, è importante ed acquisito. Il secondo, regole sui derivati, è incerto e contraddittorio. La Volcker-rule subisce continui rinvii. Doveva scattare nel luglio 2012, ma le banche non la vogliono. Tutta l’applicazione della Dodd-Frank, che contiene linee-guida in attesa di oltre 160 regolamenti, è in cronico ritardo. Il 90% delle regole sono inesistenti o incomplete. Le banche frenano e Washington, ormai sotto elezioni, non accelera. Nel Dodd-Frank Progress Report dello studio Davis Polk si può vedere, sul web, la voluta lentezza del tutto. Secondo il deputato democratico Barney Frank, con il senatore democratico Chris Doddautore della legge e entrambi assai vicini al mondo della finanza, i repubblicani contano sull’appoggio di Wall Street per vincere le elezioni 2012 e svuotare poi definitivamente la riforma. I democratici, che nel 2008 ebbero da Wall Street forti aiuti, sono fermi alla linea espressa da Barack Obama quando nell’inverno 2009 ricevette i banchieri e ricordò loro che «c’è solo la mia amministrazione tra voi e i forconi della gente inferocita».
In mezzo a queste due strategie non troppo dissimili, c’è un’America che ha nel direttivo Fed, al Congresso e altrove voci sagge che vorrebbero una ben diversa riforma, ma non riesce a farle prevalere, ed è ben diversa da quella che negli Anni 30 seppe dettare regole finanziarie imitate poi da tutti. Oggi c’è chi guarda più indietro che avanti. E questo sì è “un-American”.
Fonte: Il Sole-24 Ore