Le banche internazionali avranno bisogno di 600 miliardi per mettersi in regola, mentre alle italiane serviranno 40 miliardi. Gli istituti avranno però tempo per adeguarsi fino al 2018. Cosa succederà quindi, con Basilea 3? I nuovi requisiti di capitali introdotti dal Comitato formato dai 27 Governatori più importanti del mondo provocheranno la tanto temuta stretta creditizia? I nuovi requisiti sono indubbiamente stringenti ma la gradualità prevista per la loro entrata in vigore ( timer al 2019 ) lascia ragionevolmente tranquilli.
Ma concretamente cosa emergerà ? La maggiore patrimonializzazione richiesta dalle nuove norme metterà le banche di fronte all’alternativa di aumentare i mezzi propri (specie quelli includibili nel Tier 1) o di ridurre l’attivo e, specialmente, quello più rischioso, che assorbe più capitale, e che è proprio costituito dai crediti all’economia; la riduzione delle attività maggiormente speculative (come derivati,default swap e vendite allo scoperto), provocherà importanti conseguenze sui conti economici delle banche, le quali cercheranno alternative più redditizie di quelle rappresentate dai prestiti all’economia, a meno di cambiare le condizioni alle quali questi ultimi sono concessi e, in particolare, innalzando il relativo prezzo. C’è stata fino ad oggi una politica della raccolta del capitale di rischio che è stata attenta alla sua remunerazione, almeno negli ultimi 15 anni. La banche italiane hanno ben remunerato i propri azionisti. Ma adesso ? Se si assumono meno rischi nell’attività bancaria, la remunerazione del capitale si abbasserà. E’ il paradosso di Basilea 3 : le banche dovranno chiedere più capitali, ma la remunerazione promessa non potrà che essere minore del passato. Le azioni bancarie potranno continuare ad essere sicure – se la gestione sarà sana e prudente – ma non più redditizie come in passato. Ogni azionista si domanderà se il nuovo livello di remunerazione sarà sufficiente, ovvero se il valore dell’azione dovrà essere integrato da ” benefici diversi “. Banche più semplici e noiose, non certamente più innovative con una struttura societaria e delle partecipate o controllate più snella, una capitalizzazione più pulita grazie alla regolamentazione degli strumenti ibridi e una gestione più accurata dei rischi e dei clienti ( i derivati vengono chiaramente penalizzati, specie quelli otc non gestiti da mercati regolamentati). Alcuni commentatori hanno parlato di utility banking : la banca deve offrire poche cose semplici e senza tanti fronzoli, come una azienda di servizi. Crescerà inoltre l’importanza dell’azione di Vigilanza della Banca d’Italia: non esistendo il modello ottimo della governance – lo sapevamo anche prima, ma la crisi finanziaria ne ha dato ampia dimostrazione – le responsabilità della supervisione nell’azione di monitoraggio aumenteranno. Comunque fra tante criticità c’è sicuramente un punto positivo: le banche italiane, proprio per la loro natura retail, per la relativa semplificazione virtuosa delle loro strutture societarie, del capitale e del business sono poco sacrificate dal nuovo accordo.Gli impatti sul capitale sono contenuti per l’uso limitato di ibridi e per l’assenza di deficit pensionistici nei confronti dei propri dipendenti. Il rischio controparte su derivati di copertura è limitato. Nessuno ha un leverage superiore a 25.
Quanto agli accantonamenti generici sono già parte della prassi italiana. Gli indici di liquidità sono infine abbondantemente superiori al 100 per cento. L’erba del vicino non è più verde. Semmai bisognerà cambiare politica del Personale. Le banche abbondano di sportellisti e non difettano di grandi relazioni con le grandi famiglie, ma mancano di personale in grado di leggere un business plan e di selezionare tra tante piccole imprese quelle meritorie di credito. Per migliorare il rapporto banca-impresa bisogna concedere il credito sulla base della bontà dei progetti di investimento e non unicamente considerando la capacità patrimoniale di chi chiede soldi a prestito. Insomma le banche devono parlare “industrialese” e le industrie devono parlare “bancarese”. Capirsi è indispensabile per il futuro di entrambi. Informazioni complete e non ermetiche.
Autore: Mario Bartiromo (centro Studi Ferdinando Galiani)
Fonte: Denaro.it
Le banche internazionali avranno bisogno di 600 miliardi per mettersi in regola, mentre alle italiane serviranno 40 miliardi. Gli istituti avranno però tempo per adeguarsi fino al 2018. Cosa succederà quindi, con Basilea 3? I nuovi requisiti di capitali introdotti dal Comitato formato dai 27 Governatori più importanti del mondo provocheranno la tanto temuta stretta creditizia? I nuovi requisiti sono indubbiamente stringenti ma la gradualità prevista per la loro entrata in vigore ( timer al 2019 ) lascia ragionevolmente tranquilli.
Ma concretamente cosa emergerà ? La maggiore patrimonializzazione richiesta dalle nuove norme metterà le banche di fronte all’alternativa di aumentare i mezzi propri (specie quelli includibili nel Tier 1) o di ridurre l’attivo e, specialmente, quello più rischioso, che assorbe più capitale, e che è proprio costituito dai crediti all’economia; la riduzione delle attività maggiormente speculative (come derivati,default swap e vendite allo scoperto), provocherà importanti conseguenze sui conti economici delle banche, le quali cercheranno alternative più redditizie di quelle rappresentate dai prestiti all’economia, a meno di cambiare le condizioni alle quali questi ultimi sono concessi e, in particolare, innalzando il relativo prezzo. C’è stata fino ad oggi una politica della raccolta del capitale di rischio che è stata attenta alla sua remunerazione, almeno negli ultimi 15 anni. La banche italiane hanno ben remunerato i propri azionisti. Ma adesso ? Se si assumono meno rischi nell’attività bancaria, la remunerazione del capitale si abbasserà. E’ il paradosso di Basilea 3 : le banche dovranno chiedere più capitali, ma la remunerazione promessa non potrà che essere minore del passato. Le azioni bancarie potranno continuare ad essere sicure – se la gestione sarà sana e prudente – ma non più redditizie come in passato. Ogni azionista si domanderà se il nuovo livello di remunerazione sarà sufficiente, ovvero se il valore dell’azione dovrà essere integrato da ” benefici diversi “. Banche più semplici e noiose, non certamente più innovative con una struttura societaria e delle partecipate o controllate più snella, una capitalizzazione più pulita grazie alla regolamentazione degli strumenti ibridi e una gestione più accurata dei rischi e dei clienti ( i derivati vengono chiaramente penalizzati, specie quelli otc non gestiti da mercati regolamentati). Alcuni commentatori hanno parlato di utility banking : la banca deve offrire poche cose semplici e senza tanti fronzoli, come una azienda di servizi. Crescerà inoltre l’importanza dell’azione di Vigilanza della Banca d’Italia: non esistendo il modello ottimo della governance – lo sapevamo anche prima, ma la crisi finanziaria ne ha dato ampia dimostrazione – le responsabilità della supervisione nell’azione di monitoraggio aumenteranno. Comunque fra tante criticità c’è sicuramente un punto positivo: le banche italiane, proprio per la loro natura retail, per la relativa semplificazione virtuosa delle loro strutture societarie, del capitale e del business sono poco sacrificate dal nuovo accordo.Gli impatti sul capitale sono contenuti per l’uso limitato di ibridi e per l’assenza di deficit pensionistici nei confronti dei propri dipendenti. Il rischio controparte su derivati di copertura è limitato. Nessuno ha un leverage superiore a 25.
Quanto agli accantonamenti generici sono già parte della prassi italiana. Gli indici di liquidità sono infine abbondantemente superiori al 100 per cento. L’erba del vicino non è più verde. Semmai bisognerà cambiare politica del Personale. Le banche abbondano di sportellisti e non difettano di grandi relazioni con le grandi famiglie, ma mancano di personale in grado di leggere un business plan e di selezionare tra tante piccole imprese quelle meritorie di credito. Per migliorare il rapporto banca-impresa bisogna concedere il credito sulla base della bontà dei progetti di investimento e non unicamente considerando la capacità patrimoniale di chi chiede soldi a prestito. Insomma le banche devono parlare “industrialese” e le industrie devono parlare “bancarese”. Capirsi è indispensabile per il futuro di entrambi. Informazioni complete e non ermetiche.
Autore: Mario Bartiromo (centro Studi Ferdinando Galiani)
Fonte: Denaro.it