Nel grande risiko bancario italiano spunta un ingrediente che sembra disegnato ad hoc per rendere più appetibile Mps agli occhi dell’unico acquirente credibile sul mercato, ovvero UniCredit; che può permettere a sua volta alla banca guidata da Andrea Orcel di trasformare il più possibile in “oro” ciò che oggi è una perdita; e che, in ultima analisi, è destinato a fare da propellente al consolidamento di tutto il settore.
La novità, tecnica ma di sostanza, è contenuta nella bozza del Decreto Sostegni Bis e prevede una serie di modifiche alla normativa sulle Dta (Deferred tax asset) ovvero le perdite fiscali che già da inizio anno possono essere trasformate in credito d’imposta (e quindi in capitale) in caso di fusione con altre banche a fronte della corresponsione di “commissioni”, deducibili ai fini Ires e Irap, pari al 25% dell’importo. Un tesoretto nascosto che ai bilanci di fine 2020 vale, secondo i calcoli di Deutsche Bank, circa 11,6 miliardi per gli istituti italiani (contro i 10,8 precedenti) e che il Governo, con l’ultima Legge di bilancio, aveva permesso di trasformare in capitale in caso di fusioni da approvare però entro fine 2021.
La scadenza inizialmente era considerata compatibile con il varo di potenziali aggregazioni. Ma con il passare del tempo, le cose si sono fatte più complicate, data anche la recente tornata di cambi ai vertici, da UniCredit a Bper, che ha di fatto azzerato il timer delle riflessioni. Da qua la prima decisione di rilievo del Governo di allungare di sei mesi, al 30 giugno 2022, il termine previsto dalla manovra per deliberare la business combination, fino ad oggi fermo a dicembre 2021. Una modifica decisiva, questa, perché è destinata a dare più spazio di manovra a tutti banchieri per mettere in piedi le fusioni, dal momento che di norma occorrono sempre 5-6 mesi di lavori preparatori prima dell’approvazione assembleare. «Consideriamo la notizia come un incentivo positivo al M&A in quanto consentirà alle banche di avere più tempo per beneficiare» della misura, scrivevano ieri gli analisti di Mediobanca.
Ma non basta. La seconda novità di rilievo è che la soglia delle Dta convertibili (da entrambi i versanti) è destinata ad aumentare, passando dal 2% al 3% del totale degli attivi della banca più piccola coinvolta nella fusione. La misura riguarda tutte le banche, ma il tema interessa soprattutto Mps, il soggetto aggredibile con più Dta in portafoglio, pari a circa 3,8 miliardi. In caso di fusione tra UniCredit e Siena, il beneficio ammonterebbe infatti a circa 3,4 miliardi circa, ovvero 1,1 miliardi in più rispetto alla norma vigente, «con un impatto sul Cet1 della combined entity stimato in 90 punti base, rispetto a precedenti 60 punti base», spiegavano ieri gli analisti Equita. Non è un caso del resto che ieri le azioni Mps siano salite del 2,6% e le azioni scambiate a 1,17 euro. Certo, se questa fosse l’operazione, resterebbe da capire poi gli eventuali ulteriori step per una banca come UniCredit, che ha l’urgenza di tornare alla redditività. Qualcuno guarda a BancoBpm. Qualcun altro ragiona su Mediobanca, che con la sua fisionomia apre una frontiera intrigante da esplorare, benchè tutt’altro che scontata.
A questo va aggiunto che, alzando la soglia degli attivi complessivi calcolati sul totale asset soggetto “preda”, il legislatore ha “indirettamente” innalzato l’appeal dell’operazione tra UniCredit e Mps e ridotto la forchetta con quello generato da UniCredit-BancoBpm: in questo caso il beneficio è stimato attorno a 4,1 miliardi, ma la componente principale arriverebbe dalle Dta di UniCredit (circa 4,35), e non di piazza Meda, pari a circa 1 miliardo. Senza impatti invece i benefici di una fusione tra Banco-Bper, pari a circa 1 miliardo.
Fonte: Il Sole 24 Ore
Nel grande risiko bancario italiano spunta un ingrediente che sembra disegnato ad hoc per rendere più appetibile Mps agli occhi dell’unico acquirente credibile sul mercato, ovvero UniCredit; che può permettere a sua volta alla banca guidata da Andrea Orcel di trasformare il più possibile in “oro” ciò che oggi è una perdita; e che, in ultima analisi, è destinato a fare da propellente al consolidamento di tutto il settore.
La novità, tecnica ma di sostanza, è contenuta nella bozza del Decreto Sostegni Bis e prevede una serie di modifiche alla normativa sulle Dta (Deferred tax asset) ovvero le perdite fiscali che già da inizio anno possono essere trasformate in credito d’imposta (e quindi in capitale) in caso di fusione con altre banche a fronte della corresponsione di “commissioni”, deducibili ai fini Ires e Irap, pari al 25% dell’importo. Un tesoretto nascosto che ai bilanci di fine 2020 vale, secondo i calcoli di Deutsche Bank, circa 11,6 miliardi per gli istituti italiani (contro i 10,8 precedenti) e che il Governo, con l’ultima Legge di bilancio, aveva permesso di trasformare in capitale in caso di fusioni da approvare però entro fine 2021.
La scadenza inizialmente era considerata compatibile con il varo di potenziali aggregazioni. Ma con il passare del tempo, le cose si sono fatte più complicate, data anche la recente tornata di cambi ai vertici, da UniCredit a Bper, che ha di fatto azzerato il timer delle riflessioni. Da qua la prima decisione di rilievo del Governo di allungare di sei mesi, al 30 giugno 2022, il termine previsto dalla manovra per deliberare la business combination, fino ad oggi fermo a dicembre 2021. Una modifica decisiva, questa, perché è destinata a dare più spazio di manovra a tutti banchieri per mettere in piedi le fusioni, dal momento che di norma occorrono sempre 5-6 mesi di lavori preparatori prima dell’approvazione assembleare. «Consideriamo la notizia come un incentivo positivo al M&A in quanto consentirà alle banche di avere più tempo per beneficiare» della misura, scrivevano ieri gli analisti di Mediobanca.
Ma non basta. La seconda novità di rilievo è che la soglia delle Dta convertibili (da entrambi i versanti) è destinata ad aumentare, passando dal 2% al 3% del totale degli attivi della banca più piccola coinvolta nella fusione. La misura riguarda tutte le banche, ma il tema interessa soprattutto Mps, il soggetto aggredibile con più Dta in portafoglio, pari a circa 3,8 miliardi. In caso di fusione tra UniCredit e Siena, il beneficio ammonterebbe infatti a circa 3,4 miliardi circa, ovvero 1,1 miliardi in più rispetto alla norma vigente, «con un impatto sul Cet1 della combined entity stimato in 90 punti base, rispetto a precedenti 60 punti base», spiegavano ieri gli analisti Equita. Non è un caso del resto che ieri le azioni Mps siano salite del 2,6% e le azioni scambiate a 1,17 euro. Certo, se questa fosse l’operazione, resterebbe da capire poi gli eventuali ulteriori step per una banca come UniCredit, che ha l’urgenza di tornare alla redditività. Qualcuno guarda a BancoBpm. Qualcun altro ragiona su Mediobanca, che con la sua fisionomia apre una frontiera intrigante da esplorare, benchè tutt’altro che scontata.
A questo va aggiunto che, alzando la soglia degli attivi complessivi calcolati sul totale asset soggetto “preda”, il legislatore ha “indirettamente” innalzato l’appeal dell’operazione tra UniCredit e Mps e ridotto la forchetta con quello generato da UniCredit-BancoBpm: in questo caso il beneficio è stimato attorno a 4,1 miliardi, ma la componente principale arriverebbe dalle Dta di UniCredit (circa 4,35), e non di piazza Meda, pari a circa 1 miliardo. Senza impatti invece i benefici di una fusione tra Banco-Bper, pari a circa 1 miliardo.
Fonte: Il Sole 24 Ore