«Il piano d’azione della Commissione europea sui crediti deteriorati punta a favorire lo sviluppo di un mercato secondario. Vendere a soggetti terzi i propri crediti permette alle banche di focalizzarsi sulle nuove erogazioni». Era il 16 dicembre scorso quando il Commissario europeo Mairead McGuinness, descrivendo il piano di Bruxelles per affrontare la prossima ondata di crediti deteriorati, pronunciava queste parole. Condivisibili. Auspicate da tutto il settore degli Npl. Peccato però che nelle norme europee già esistenti ci siano tutt’ora alcuni dettagli tecnici che spingono dalla parte diametralmente opposta a quanto auspicato da McGuinness. Piccole incongruenze che potenzialmente fanno grandi danni. Sbavature nella normativa, che invece di «favorire lo sviluppo del mercato secondario» nei fatti lo ostacolano. Invece di lubrificarlo, gettano acqua sugli ingranaggi. Su uno di questi intoppi tecnici l’azione di persuasione dell’Abi è riuscita a strappare a Bruxelles la promessa di una correzione. Scritta nero su bianco proprio nel piano annunciato da McGuinness. Ma su altri no. Così il problema resta: la Commissione annuncia di voler «favorire lo sviluppo del mercato» degli Npl, ma alcune norme europee remano contro.
Le svalutazioni con l’elastico
È il caso dell’articolo 127 della Capital Requirement Regulation 2, cioè del regolamento europeo sui requisiti di capitale (Crr2). Questo articolo prevede che quando un prestito diventa deteriorato (e con la nuova definizione di default bastano 90 giorni di mancato pagamento di una rata), quel credito inizia ad assorbire capitale della banca per un importo pari al 150% del suo valore. Cento euro di credito, insomma, “consumano” 150 euro di capitale. Per evitarlo, la banca può fare una cosa sola: svalutare il credito almeno del 20%. Se il credito era da 100 euro, la banca ne deve insomma mettere a perdita almeno 20 nel conto economico. Solo così quel prestito torna a “pesare” al 100% nel suo capitale.
Il problema nasce se la banca vende quel credito deteriorato a un’altra banca specializzata nella gestione degli Npl (in Italia ce ne sono varie, come Ifis, Illimity, Credito Fondiario, Guber Banca o Hoist Finance). Infatti se anche la seconda banca compra quel credito a prezzi bassissimi, per esempio al 20% del suo valore, un “cortocircuito” della normativa torna infatti a far pesare quel credito al 150% nel capitale della seconda banca acquirente del credito. La quale, per evitare questo drenaggio di capitale, è costretta a svalutare subito il credito di un ulteriore 20% rispetto al suo prezzo di acquisto. Insomma: incassa subito una perdita contabile. Perdita inutile, dato che il credito è già stato ampiamente svalutato ed è stato acquistato a un prezzo di mercato. E anche paradossale: questa “incongruenza” di fatto costringe la banca acquirente ad avere un maggiore assorbimento di capitale sullo stesso credito rispetto alla banca cedente. Cosa che – ovvio – penalizza lo sviluppo del mercato secondario. Anche perché il problema si ripropone se la seconda banca cede ulteriormente il credito a una terza.
È da due anni che l’Abi a Bruxelles lavora per cambiare questo paradosso della doppia o tripla svalutazione. E ora Bruxelles ha aperto la porta: nel testo dell’«Npl action plan», infatti, la Commissione europea scrive che «nel 2021 intende sviluppare, insieme all’Eba, un approccio» che risolva questo problema. Pur evitando di andare dalla parte opposta: cioè che si arrivi a sottostimare i rischi. Insomma: un passo avanti c’è.
La clessidra inesorabile
Non è stato fatto alcun passo in avanti invece su un’altra incongruenza, sebbene su questo punto fosse stata chiesta in origine una modifica non solo dall’Italia ma anche dalle piccole banche tedesche. In questo caso il problema nasce dal «calendar provisioning»: quando un credito soggetto a questa normativa (che riguarda solo quelli erogati dopo l’aprile 2019) finisce in default, la banca è costretta a svalutarlo a tappe forzate fino a portarlo a valore zero dopo tre anni se è chirografario o dopo sette se è garantito da immobili. Questa è una normativa contro cui l’Italia, soprattutto in questo periodo Covid, chiede più flessibiltà. Ma c’è una “postilla” ulteriore che rende questa norma ancora più problematica: dopo aver svalutato il credito a zero, se la banca lo vende a un prezzo maggiore di zero (anche a un prezzo basso come nell’esempio precedente), il «calendar provisioning» obbliga anche l’acquirente a ri-svalutarlo a zero. Insomma: l’operatore specializzato che compra il credito deteriorato al 5-10-20% del valore nominale, è costretto all’istante a continuare con il «calendar provisioning». E se il credito è già svalutato a zero, deve riportarlo a zero. Poi quando recupererà il credito incasserà un’eventuale plusvalenza, ma nell’immediato prende una perdita secca. Senza passare dal via.
«Questa è una norma fortemente disincentivante per chi compra crediti deteriorati – osserva Giovanni Bossi, fondatore e ad di Cherry -. Questo frena il mercato secondario degli Npl e soprattutto farà scendere i prezzi dei crediti, a svantaggio dell’intero sistema bancario». L’Abi e diversi operatori da tempo chiedono che in caso di cessione del credito a un prezzo di mercato, la ”clessidra” del «calendar provisioning» riparta da zero e non imponga subito all’acquirente di perdere tutti o parte dei soldi spesi a seconda da quale sia l’anno di svalutazione del credito. Ma la relatrice olandese in Commissione Bruxelles non volle accogliere questa richiesta sin dall’origine: temeva che le banche facessero cessioni “fittizie” di Npl l’una con l’altra con il solo scopo di far ripartire la clessidra del «calendar provisioning». Sta di fatto che questa norma contribuisce a frenare quel «mercato secondario» che Bruxelles tanto vuole far decollare. Un boomerang insomma.
Fonte: Il Sole 24 Ore
«Il piano d’azione della Commissione europea sui crediti deteriorati punta a favorire lo sviluppo di un mercato secondario. Vendere a soggetti terzi i propri crediti permette alle banche di focalizzarsi sulle nuove erogazioni». Era il 16 dicembre scorso quando il Commissario europeo Mairead McGuinness, descrivendo il piano di Bruxelles per affrontare la prossima ondata di crediti deteriorati, pronunciava queste parole. Condivisibili. Auspicate da tutto il settore degli Npl. Peccato però che nelle norme europee già esistenti ci siano tutt’ora alcuni dettagli tecnici che spingono dalla parte diametralmente opposta a quanto auspicato da McGuinness. Piccole incongruenze che potenzialmente fanno grandi danni. Sbavature nella normativa, che invece di «favorire lo sviluppo del mercato secondario» nei fatti lo ostacolano. Invece di lubrificarlo, gettano acqua sugli ingranaggi. Su uno di questi intoppi tecnici l’azione di persuasione dell’Abi è riuscita a strappare a Bruxelles la promessa di una correzione. Scritta nero su bianco proprio nel piano annunciato da McGuinness. Ma su altri no. Così il problema resta: la Commissione annuncia di voler «favorire lo sviluppo del mercato» degli Npl, ma alcune norme europee remano contro.
Le svalutazioni con l’elastico
È il caso dell’articolo 127 della Capital Requirement Regulation 2, cioè del regolamento europeo sui requisiti di capitale (Crr2). Questo articolo prevede che quando un prestito diventa deteriorato (e con la nuova definizione di default bastano 90 giorni di mancato pagamento di una rata), quel credito inizia ad assorbire capitale della banca per un importo pari al 150% del suo valore. Cento euro di credito, insomma, “consumano” 150 euro di capitale. Per evitarlo, la banca può fare una cosa sola: svalutare il credito almeno del 20%. Se il credito era da 100 euro, la banca ne deve insomma mettere a perdita almeno 20 nel conto economico. Solo così quel prestito torna a “pesare” al 100% nel suo capitale.
Il problema nasce se la banca vende quel credito deteriorato a un’altra banca specializzata nella gestione degli Npl (in Italia ce ne sono varie, come Ifis, Illimity, Credito Fondiario, Guber Banca o Hoist Finance). Infatti se anche la seconda banca compra quel credito a prezzi bassissimi, per esempio al 20% del suo valore, un “cortocircuito” della normativa torna infatti a far pesare quel credito al 150% nel capitale della seconda banca acquirente del credito. La quale, per evitare questo drenaggio di capitale, è costretta a svalutare subito il credito di un ulteriore 20% rispetto al suo prezzo di acquisto. Insomma: incassa subito una perdita contabile. Perdita inutile, dato che il credito è già stato ampiamente svalutato ed è stato acquistato a un prezzo di mercato. E anche paradossale: questa “incongruenza” di fatto costringe la banca acquirente ad avere un maggiore assorbimento di capitale sullo stesso credito rispetto alla banca cedente. Cosa che – ovvio – penalizza lo sviluppo del mercato secondario. Anche perché il problema si ripropone se la seconda banca cede ulteriormente il credito a una terza.
È da due anni che l’Abi a Bruxelles lavora per cambiare questo paradosso della doppia o tripla svalutazione. E ora Bruxelles ha aperto la porta: nel testo dell’«Npl action plan», infatti, la Commissione europea scrive che «nel 2021 intende sviluppare, insieme all’Eba, un approccio» che risolva questo problema. Pur evitando di andare dalla parte opposta: cioè che si arrivi a sottostimare i rischi. Insomma: un passo avanti c’è.
La clessidra inesorabile
Non è stato fatto alcun passo in avanti invece su un’altra incongruenza, sebbene su questo punto fosse stata chiesta in origine una modifica non solo dall’Italia ma anche dalle piccole banche tedesche. In questo caso il problema nasce dal «calendar provisioning»: quando un credito soggetto a questa normativa (che riguarda solo quelli erogati dopo l’aprile 2019) finisce in default, la banca è costretta a svalutarlo a tappe forzate fino a portarlo a valore zero dopo tre anni se è chirografario o dopo sette se è garantito da immobili. Questa è una normativa contro cui l’Italia, soprattutto in questo periodo Covid, chiede più flessibiltà. Ma c’è una “postilla” ulteriore che rende questa norma ancora più problematica: dopo aver svalutato il credito a zero, se la banca lo vende a un prezzo maggiore di zero (anche a un prezzo basso come nell’esempio precedente), il «calendar provisioning» obbliga anche l’acquirente a ri-svalutarlo a zero. Insomma: l’operatore specializzato che compra il credito deteriorato al 5-10-20% del valore nominale, è costretto all’istante a continuare con il «calendar provisioning». E se il credito è già svalutato a zero, deve riportarlo a zero. Poi quando recupererà il credito incasserà un’eventuale plusvalenza, ma nell’immediato prende una perdita secca. Senza passare dal via.
«Questa è una norma fortemente disincentivante per chi compra crediti deteriorati – osserva Giovanni Bossi, fondatore e ad di Cherry -. Questo frena il mercato secondario degli Npl e soprattutto farà scendere i prezzi dei crediti, a svantaggio dell’intero sistema bancario». L’Abi e diversi operatori da tempo chiedono che in caso di cessione del credito a un prezzo di mercato, la ”clessidra” del «calendar provisioning» riparta da zero e non imponga subito all’acquirente di perdere tutti o parte dei soldi spesi a seconda da quale sia l’anno di svalutazione del credito. Ma la relatrice olandese in Commissione Bruxelles non volle accogliere questa richiesta sin dall’origine: temeva che le banche facessero cessioni “fittizie” di Npl l’una con l’altra con il solo scopo di far ripartire la clessidra del «calendar provisioning». Sta di fatto che questa norma contribuisce a frenare quel «mercato secondario» che Bruxelles tanto vuole far decollare. Un boomerang insomma.
Fonte: Il Sole 24 Ore