Qual è la visione di Cerved sul mondo del Real Estate e, in particolare, del PropTech?
A.V. Il Covid-19 potrebbe avere impatti significativi sul real estate, in parte sui prezzi degli immobili, in parte accelerando alcune dinamiche che già erano in atto, come il PropTech.
Con la nostra divisione che gestisce i crediti delle banche stiamo lavorando per valorizzare le garanzie ed evitare deprezzamenti degli immobili, che ci aspettiamo molto diversificati, a seconda della destinazione d’uso, della localizzazione e dello stato di occupazione dell’immobile.
Una seconda tendenza che riguarderà il mercato immobiliare, e su cui stiamo lavorando, è la digitalizzazione: in questo ultimo anno è stato travolto da una vera ondata di tecnologia applicata al business tradizionale, così com’è avvenuto poco prima anche nel mondo finanziario con il fintech.
Questa ondata di digitalizzazione è stata ovviamente più forte in città come Milano, dove il mercato immobiliare è di traino a tutto il Paese. Proprio Milano è stata la prima città che ha visto una ripresa dopo la crisi del mattone dei primi anni del 2000, con il supporto di politiche di sviluppo urbano e grazie al suo appeal anche verso un target internazionale.
Ecco perché proprio qui è nato il PropTech, grazie a numerose realtà che approcciano il mondo real estate con una visione diversa da quella tradizionale. Negli ultimi due anni circa, il fenomeno ha iniziato ad avere una rilevanza nazionale, tanto che persino il Politecnico di Milano ha istituito un PropTech Monitor.
La definizione di PropTech, in realtà, è molto ampia e spesso accoglie in sé soggetti non solo legati alla trattativa immobiliare in senso proprio, ma anche all’innovazione edilizia, alla smart home, all’affitto a breve termine e molti altri servizi a corollario.
L’obiettivo di Cerved, in questo contesto, è quello di utilizzare quanta più tecnologia e fornire quanti più dati possibili per semplificare e ottimizzare soprattutto l’attività degli operatori professionali nel settore, per consentire loro di essere più che mai attenti a cogliere le opportunità che i nuovi strumenti digitali possono offrire.
Come si sta modificando lo scenario immobiliare italiano post Covid-19? Qual è la percezione dell’andamento del mercato e del vissuto dei player del settore?
A.V. Sappiamo tutti che l’emergenza Covid-19 ha costretto alla sospensione dell’attività delle agenzie immobiliari per diversi mesi, a causa del distanziamento sociale che ha totalmente cambiato il modo di lavorare, ad esempio rendendo impossibile la semplice visita di persona all’immobile. Ecco perché molte agenzie immobiliari, in questi mesi, si sono affacciate al digitale, a nuove soluzioni per recuperare “il tempo perso” e per costruirsi un vantaggio competitivo in ottica futura.
Stiamo osservando un utilizzo più spinto della tecnologia, come i virtual tour e le visite in remoto, solo per citare due esempi. Milano sta già riprendendo a muoversi sul comparto residenziale, seppur con una stabilizzazione dei prezzi. Lo stesso non si può dire per diverse altre città e per il comparto del real estate commerciale, dove gli effetti del lockdown stanno perdurando.
Lato domanda, sono emerse nuove esigenze e parametri di ricerca degli acquirenti, che privilegiano soluzioni più ampie, con spazi all’aperto: l’ipotesi che la modalità di lavoro agile diventi la nuova normalità è sempre più nella testa dei buyer. La casa non è più, quindi, solo un tetto sotto il quale dormire ma un vero spazio da vivere, il che sta producendo effetti anche sul nuovo costruito.
A tutto questo, per dare una spinta al mercato dell’immobiliare residenziali, si aggiungono anche le disposizioni relative ai diversi Bonus legati a ristrutturazioni ed efficientamento energetico, iniziative che potranno spingere in maniera positiva la ripresa.
Dal vostro osservatorio privilegiato che tipo di impatti prevedete sulle imprese nei prossimi 12 mesi?
A.V. In base alle nostre stime, in media le imprese italiane perderanno nel 2020 circa il 12,7% dei ricavi secondo uno scenario di base, allineato con quello di consenso. Nel caso di nuove ondate del virus in autunno, la caduta potrebbe arrivare a sfiorare i 18 punti percentuali. Per il 2021 è prevista una ripresa delle vendite delle imprese, ma insufficiente per recuperare le consistenti perdite dell’anno precedente.
Secondo le nostre elaborazioni, questi impatti risulteranno fortemente diversificati in base al settore merceologico in cui operano le imprese. Il Covid-19 implica, infatti, conseguenze asimmetriche, a seconda del tipo di attività svolta, con impatti più significativi per i settori maggiormente dipendenti dalle norme di distanziamento sociale o dal crollo del commercio internazionale.
Se alla contrazione dell’attività economica, che in alcuni settori si tradurrà in un crollo delle vendite, seguirà un’ondata di fallimenti, l’economia italiana potrebbe entrare in una fase di recessione e stagnazione prolungata. Ciò dipende da quante imprese italiane falliranno per crisi di liquidità dovuta al calo delle vendite: i mancati pagamenti potrebbero amplificare il contagio finanziario ad altre imprese, con un effetto a catena sull’intera economia, coinvolgendo anche i pochi settori non colpiti da questa crisi. In poco tempo riprenderebbero a crescere gli NPL e il contagio si estenderebbe anche al settore finanziario.
In base alle nostre analisi, potrebbero entrare in crisi di liquidità oltre 200 mila imprese nel corso del 2020. Di queste, un numero molto significativo (oltre 180 mila), avrebbe esaurito la liquidità per pagare i fornitori e i salari (o per anticipare la Cassa Integrazione) già ad aprile. I costi sociali sono potenzialmente molto rilevanti: queste imprese occupano, infatti, circa 3,5 milioni di lavoratori.
La liquidità prevista dal Decreto Cura Italia è ampiamente sufficiente per coprire i fabbisogni di liquidità di queste imprese: in base alle analisi, a fronte di una disponibilità di risorse annunciate dal governo pari a 400 miliardi (200 miliardi attraverso il Fondo Centrale di Garanzia e 200 miliardi attraverso Sace), sono infatti necessari 73 miliardi per coprire i fabbisogni di queste imprese; se anche si considerassero immissioni per ripristinare la liquidità di partenza di queste imprese e le esigenze delle società non considerate dall’analisi, le esigenze di liquidità sarebbero ampiamente al di sotto della disponibilità prevista. D’altra parte, i lunghi tempi previsti per rendere operative le nuove norme potrebbero aver già messo in crisi un numero consistente di imprese.
L’esercizio è stato ripetuto ipotizzando nuove ondate dell’epidemia in autunno. Anche in questo caso le dotazioni sarebbero più che sufficienti: in base ai calcoli, entrerebbero in crisi di liquidità circa 280 mila società nel corso del 2020, con un fabbisogno pari a 105 miliardi di euro.
Ritenete che i servicer possano contribuire a mitigare i rischi di default delle imprese e giocare quindi un ruolo strategico per la tenuta del sistema?
A.V. Alcuni dei default non potranno essere evitati: per molte imprese questa emergenza comporta effetti di una portata tale da rendere la chiusura inevitabile.
Il ruolo dei servicer può risultare strategico per evitare il contagio finanziario da queste imprese al resto del sistema economico. Nella precedente recessione, molti fallimenti hanno infatti riguardato imprese con fondamentali sani, ma contagiate da aziende che stavano fallendo attraverso mancati pagamenti. In questi casi, una politica del credito efficace – alimentata con informazioni aggiornate sul rischio delle controparti – avrebbe potuto ridurre la portata della crisi e il numero di fallimenti.
Rispetto ad allora, oggi ci troviamo con una crisi più violenta, ma abbiamo imprese più consapevoli, con politiche del credito e una gestione della liquidità più prudente, anche grazie a informazioni migliori. Anche le banche utilizzano meglio e di più le informazioni dei servicer e hanno in pancia crediti migliori rispetto a dieci anni fa.
Qual è la visione di Cerved sul mondo del Real Estate e, in particolare, del PropTech?
A.V. Il Covid-19 potrebbe avere impatti significativi sul real estate, in parte sui prezzi degli immobili, in parte accelerando alcune dinamiche che già erano in atto, come il PropTech.
Con la nostra divisione che gestisce i crediti delle banche stiamo lavorando per valorizzare le garanzie ed evitare deprezzamenti degli immobili, che ci aspettiamo molto diversificati, a seconda della destinazione d’uso, della localizzazione e dello stato di occupazione dell’immobile.
Una seconda tendenza che riguarderà il mercato immobiliare, e su cui stiamo lavorando, è la digitalizzazione: in questo ultimo anno è stato travolto da una vera ondata di tecnologia applicata al business tradizionale, così com’è avvenuto poco prima anche nel mondo finanziario con il fintech.
Questa ondata di digitalizzazione è stata ovviamente più forte in città come Milano, dove il mercato immobiliare è di traino a tutto il Paese. Proprio Milano è stata la prima città che ha visto una ripresa dopo la crisi del mattone dei primi anni del 2000, con il supporto di politiche di sviluppo urbano e grazie al suo appeal anche verso un target internazionale.
Ecco perché proprio qui è nato il PropTech, grazie a numerose realtà che approcciano il mondo real estate con una visione diversa da quella tradizionale. Negli ultimi due anni circa, il fenomeno ha iniziato ad avere una rilevanza nazionale, tanto che persino il Politecnico di Milano ha istituito un PropTech Monitor.
La definizione di PropTech, in realtà, è molto ampia e spesso accoglie in sé soggetti non solo legati alla trattativa immobiliare in senso proprio, ma anche all’innovazione edilizia, alla smart home, all’affitto a breve termine e molti altri servizi a corollario.
L’obiettivo di Cerved, in questo contesto, è quello di utilizzare quanta più tecnologia e fornire quanti più dati possibili per semplificare e ottimizzare soprattutto l’attività degli operatori professionali nel settore, per consentire loro di essere più che mai attenti a cogliere le opportunità che i nuovi strumenti digitali possono offrire.
Come si sta modificando lo scenario immobiliare italiano post Covid-19? Qual è la percezione dell’andamento del mercato e del vissuto dei player del settore?
A.V. Sappiamo tutti che l’emergenza Covid-19 ha costretto alla sospensione dell’attività delle agenzie immobiliari per diversi mesi, a causa del distanziamento sociale che ha totalmente cambiato il modo di lavorare, ad esempio rendendo impossibile la semplice visita di persona all’immobile. Ecco perché molte agenzie immobiliari, in questi mesi, si sono affacciate al digitale, a nuove soluzioni per recuperare “il tempo perso” e per costruirsi un vantaggio competitivo in ottica futura.
Stiamo osservando un utilizzo più spinto della tecnologia, come i virtual tour e le visite in remoto, solo per citare due esempi. Milano sta già riprendendo a muoversi sul comparto residenziale, seppur con una stabilizzazione dei prezzi. Lo stesso non si può dire per diverse altre città e per il comparto del real estate commerciale, dove gli effetti del lockdown stanno perdurando.
Lato domanda, sono emerse nuove esigenze e parametri di ricerca degli acquirenti, che privilegiano soluzioni più ampie, con spazi all’aperto: l’ipotesi che la modalità di lavoro agile diventi la nuova normalità è sempre più nella testa dei buyer. La casa non è più, quindi, solo un tetto sotto il quale dormire ma un vero spazio da vivere, il che sta producendo effetti anche sul nuovo costruito.
A tutto questo, per dare una spinta al mercato dell’immobiliare residenziali, si aggiungono anche le disposizioni relative ai diversi Bonus legati a ristrutturazioni ed efficientamento energetico, iniziative che potranno spingere in maniera positiva la ripresa.
Dal vostro osservatorio privilegiato che tipo di impatti prevedete sulle imprese nei prossimi 12 mesi?
A.V. In base alle nostre stime, in media le imprese italiane perderanno nel 2020 circa il 12,7% dei ricavi secondo uno scenario di base, allineato con quello di consenso. Nel caso di nuove ondate del virus in autunno, la caduta potrebbe arrivare a sfiorare i 18 punti percentuali. Per il 2021 è prevista una ripresa delle vendite delle imprese, ma insufficiente per recuperare le consistenti perdite dell’anno precedente.
Secondo le nostre elaborazioni, questi impatti risulteranno fortemente diversificati in base al settore merceologico in cui operano le imprese. Il Covid-19 implica, infatti, conseguenze asimmetriche, a seconda del tipo di attività svolta, con impatti più significativi per i settori maggiormente dipendenti dalle norme di distanziamento sociale o dal crollo del commercio internazionale.
Se alla contrazione dell’attività economica, che in alcuni settori si tradurrà in un crollo delle vendite, seguirà un’ondata di fallimenti, l’economia italiana potrebbe entrare in una fase di recessione e stagnazione prolungata. Ciò dipende da quante imprese italiane falliranno per crisi di liquidità dovuta al calo delle vendite: i mancati pagamenti potrebbero amplificare il contagio finanziario ad altre imprese, con un effetto a catena sull’intera economia, coinvolgendo anche i pochi settori non colpiti da questa crisi. In poco tempo riprenderebbero a crescere gli NPL e il contagio si estenderebbe anche al settore finanziario.
In base alle nostre analisi, potrebbero entrare in crisi di liquidità oltre 200 mila imprese nel corso del 2020. Di queste, un numero molto significativo (oltre 180 mila), avrebbe esaurito la liquidità per pagare i fornitori e i salari (o per anticipare la Cassa Integrazione) già ad aprile. I costi sociali sono potenzialmente molto rilevanti: queste imprese occupano, infatti, circa 3,5 milioni di lavoratori.
La liquidità prevista dal Decreto Cura Italia è ampiamente sufficiente per coprire i fabbisogni di liquidità di queste imprese: in base alle analisi, a fronte di una disponibilità di risorse annunciate dal governo pari a 400 miliardi (200 miliardi attraverso il Fondo Centrale di Garanzia e 200 miliardi attraverso Sace), sono infatti necessari 73 miliardi per coprire i fabbisogni di queste imprese; se anche si considerassero immissioni per ripristinare la liquidità di partenza di queste imprese e le esigenze delle società non considerate dall’analisi, le esigenze di liquidità sarebbero ampiamente al di sotto della disponibilità prevista. D’altra parte, i lunghi tempi previsti per rendere operative le nuove norme potrebbero aver già messo in crisi un numero consistente di imprese.
L’esercizio è stato ripetuto ipotizzando nuove ondate dell’epidemia in autunno. Anche in questo caso le dotazioni sarebbero più che sufficienti: in base ai calcoli, entrerebbero in crisi di liquidità circa 280 mila società nel corso del 2020, con un fabbisogno pari a 105 miliardi di euro.
Ritenete che i servicer possano contribuire a mitigare i rischi di default delle imprese e giocare quindi un ruolo strategico per la tenuta del sistema?
A.V. Alcuni dei default non potranno essere evitati: per molte imprese questa emergenza comporta effetti di una portata tale da rendere la chiusura inevitabile.
Il ruolo dei servicer può risultare strategico per evitare il contagio finanziario da queste imprese al resto del sistema economico. Nella precedente recessione, molti fallimenti hanno infatti riguardato imprese con fondamentali sani, ma contagiate da aziende che stavano fallendo attraverso mancati pagamenti. In questi casi, una politica del credito efficace – alimentata con informazioni aggiornate sul rischio delle controparti – avrebbe potuto ridurre la portata della crisi e il numero di fallimenti.
Rispetto ad allora, oggi ci troviamo con una crisi più violenta, ma abbiamo imprese più consapevoli, con politiche del credito e una gestione della liquidità più prudente, anche grazie a informazioni migliori. Anche le banche utilizzano meglio e di più le informazioni dei servicer e hanno in pancia crediti migliori rispetto a dieci anni fa.