La crisi economica da Coronavirus avrà un sicuro impatto sulle banche, al momento non quantificabile visti gli interventi sia della Bce che del governo che stanno cercando di limitarne gli effetti. Ma, per quanto gli aiuti possano avere successo, una cosa è certa: aumenteranno di nuovo le sofferenze, invertendo il trend positivo che aveva portato a farle scendere dai 345 miliardi lordi del 2015 ai 140 del 2019. Oltre alle banche, ci sono però altri soggetti che stanno soffrendo: i cosiddetti servicer, le società specializzate in gestione degli Npl (non performing loans, le “sofferenze” appunto). Alcune sono quotate in Borsa: da doValue a Banca Ifis, da Cerved a Illimity. Queste ultime due hanno un gamma più ampia di servizi, e dunque non dipendono soltanto dalle commissioni per la gestione degli Npl. Tutte hanno perso in Piazza Affari da inizio anno tra il 35 e il 39%, con una perdita ancora più accentuata per la più grande in termini di masse gestite, doValue, arrivata a meno 54%. A parte quest’ultima, le flessioni sono abbastanza allineate con quelle degli istituti di credito più piccoli, mentre Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno tenuto meglio. Insomma, per tutte quelle attività finanziarie che hanno a che fare con i crediti deteriorati sono tempi duri. La previsione, infatti, è che questi possano crescere, procurando nuovi guai alle banche ma anche a chi, come i servicer, vive con l’escussione dei prestiti da cui ricava le commissioni: quanto più questi soggetti recuperano soldi da chi li aveva avuti in prestito, tanto più guadagnano. Ora questo meccanismo si è bloccato. La prima avvisaglia è stata la fine delle trattative tra il colosso svedese Intrum e Cerved per l’acquisto degli Npl in gestione di questa (che ha i suoi maggiori ricavi da un altro business, l’informazione per le imprese). Le trattative duravano da mesi e vertevano sul valore degli Npl: l’epidemia ha cambiato le carte e Intrum si è ritirata. Il timore è chiaro. Visto che si è bloccata di fatto l’attività di recupero, che passa perlopiù attraverso i tribunali (di fatto chiusi), i servicer non possono lavorare. “Noi”, dice Steve Lennon, fondatore e ceo di Phoenix, con masse in gestione per circa 9 miliardi e al decimo posto in Italia, “cerchiamo di accelerare le ‘distribuzioni parziali’, ovvero di avere quel denaro dove le procedure hanno già permesso di vendere alcuni asset, con il curatore fallimentare che deve decidere appunto come distribuire gli incassi. Inoltre, facilitiamo i saldi e gli stralci con i debitori: lasciamo un po’ di valore sul tavolo ma acceleriamo”. Per fronteggiare il fermo dei tribunali, Clemente Reale, country manager per l’Italia di Hoist Finance sostiene di star lavorando per “ridurre i costi con l’utilizzo di tecnologie informatiche di recupero crediti”. Cauto ottimismo sui recuperi anche da parte di Andrea Mignanelli, ad di Gruppo Cerved: “Più del 95 per cento dell’attività stragiudiziale si fonda su contatti telefonici o epistolari con le controparti: quest’attività continua anche adesso grazie allo smart working. Mentre l’attività nei tribunali prosegue, almeno nel caso del processo civile telematico. Ove la durata del blocco si limitasse a settimane o pochi mesi le sospensioni potrebbero essere assorbite entro l’anno”. aiutate gli utp Tutte cose utili, ma il punto è che il mercato è fermo, mentre i costi fissi pesano. E questo, secondo alcuni, non potrà che riflettersi anche sul valore dei crediti deteriorati in mano sia alle banche che ai fondi, e quindi a cascata su chi è incaricato di recuperarli. “I portafogli di crediti deteriorati”, spiega Giovanni Bossi, fondatore di Cherry e co-head di Clessidra Restructuring Fund, “perderanno valore. Quanto? Un’ipotesi è fra il 20 e il 40%, a seconda della negatività dello scenario, tenendo conto che questi portafogli valgono già oggi meno di due mesi fa”. Bossi riprende uno scenario elaborato da ModeFinance sulle piccole medie imprese italiane: “Le probabilità di default delle Pmi arrivano fino all’8 per cento nel peggiore dei tre scenari possibili (che dipendono da quanto tempo l’economia resterà ferma a causa dell’epidemia, Ndr), contro lo 0,1-1,0 per cento di oggi. Nello scenario gravemente negativo, di fatto molte società con merito di credito equilibrato verrebbero trasformate in junk: diventerebbero quindi molte di più in termini assoluti le aziende a rischio fallimento” . Il nodo cruciale per evitare un aumento smisurato dei crediti deteriorati nei prossimi mesi, secondo Pier Paolo Masenza, financial servicer leader della società di consulenza Pwc, sarà “la capacità delle banche di aiutare anche le imprese con crediti già catalogati in Utp (unlikely to pay, ovvero inadempienze probabili). Il decreto del governo non copre questa categoria ma molti istituti stanno cercando di sostenere anche queste società”.
Autore: Adriano Bonafede
Fonte: Repubblica
La crisi economica da Coronavirus avrà un sicuro impatto sulle banche, al momento non quantificabile visti gli interventi sia della Bce che del governo che stanno cercando di limitarne gli effetti. Ma, per quanto gli aiuti possano avere successo, una cosa è certa: aumenteranno di nuovo le sofferenze, invertendo il trend positivo che aveva portato a farle scendere dai 345 miliardi lordi del 2015 ai 140 del 2019. Oltre alle banche, ci sono però altri soggetti che stanno soffrendo: i cosiddetti servicer, le società specializzate in gestione degli Npl (non performing loans, le “sofferenze” appunto). Alcune sono quotate in Borsa: da doValue a Banca Ifis, da Cerved a Illimity. Queste ultime due hanno un gamma più ampia di servizi, e dunque non dipendono soltanto dalle commissioni per la gestione degli Npl. Tutte hanno perso in Piazza Affari da inizio anno tra il 35 e il 39%, con una perdita ancora più accentuata per la più grande in termini di masse gestite, doValue, arrivata a meno 54%. A parte quest’ultima, le flessioni sono abbastanza allineate con quelle degli istituti di credito più piccoli, mentre Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno tenuto meglio. Insomma, per tutte quelle attività finanziarie che hanno a che fare con i crediti deteriorati sono tempi duri. La previsione, infatti, è che questi possano crescere, procurando nuovi guai alle banche ma anche a chi, come i servicer, vive con l’escussione dei prestiti da cui ricava le commissioni: quanto più questi soggetti recuperano soldi da chi li aveva avuti in prestito, tanto più guadagnano. Ora questo meccanismo si è bloccato. La prima avvisaglia è stata la fine delle trattative tra il colosso svedese Intrum e Cerved per l’acquisto degli Npl in gestione di questa (che ha i suoi maggiori ricavi da un altro business, l’informazione per le imprese). Le trattative duravano da mesi e vertevano sul valore degli Npl: l’epidemia ha cambiato le carte e Intrum si è ritirata. Il timore è chiaro. Visto che si è bloccata di fatto l’attività di recupero, che passa perlopiù attraverso i tribunali (di fatto chiusi), i servicer non possono lavorare. “Noi”, dice Steve Lennon, fondatore e ceo di Phoenix, con masse in gestione per circa 9 miliardi e al decimo posto in Italia, “cerchiamo di accelerare le ‘distribuzioni parziali’, ovvero di avere quel denaro dove le procedure hanno già permesso di vendere alcuni asset, con il curatore fallimentare che deve decidere appunto come distribuire gli incassi. Inoltre, facilitiamo i saldi e gli stralci con i debitori: lasciamo un po’ di valore sul tavolo ma acceleriamo”. Per fronteggiare il fermo dei tribunali, Clemente Reale, country manager per l’Italia di Hoist Finance sostiene di star lavorando per “ridurre i costi con l’utilizzo di tecnologie informatiche di recupero crediti”. Cauto ottimismo sui recuperi anche da parte di Andrea Mignanelli, ad di Gruppo Cerved: “Più del 95 per cento dell’attività stragiudiziale si fonda su contatti telefonici o epistolari con le controparti: quest’attività continua anche adesso grazie allo smart working. Mentre l’attività nei tribunali prosegue, almeno nel caso del processo civile telematico. Ove la durata del blocco si limitasse a settimane o pochi mesi le sospensioni potrebbero essere assorbite entro l’anno”. aiutate gli utp Tutte cose utili, ma il punto è che il mercato è fermo, mentre i costi fissi pesano. E questo, secondo alcuni, non potrà che riflettersi anche sul valore dei crediti deteriorati in mano sia alle banche che ai fondi, e quindi a cascata su chi è incaricato di recuperarli. “I portafogli di crediti deteriorati”, spiega Giovanni Bossi, fondatore di Cherry e co-head di Clessidra Restructuring Fund, “perderanno valore. Quanto? Un’ipotesi è fra il 20 e il 40%, a seconda della negatività dello scenario, tenendo conto che questi portafogli valgono già oggi meno di due mesi fa”. Bossi riprende uno scenario elaborato da ModeFinance sulle piccole medie imprese italiane: “Le probabilità di default delle Pmi arrivano fino all’8 per cento nel peggiore dei tre scenari possibili (che dipendono da quanto tempo l’economia resterà ferma a causa dell’epidemia, Ndr), contro lo 0,1-1,0 per cento di oggi. Nello scenario gravemente negativo, di fatto molte società con merito di credito equilibrato verrebbero trasformate in junk: diventerebbero quindi molte di più in termini assoluti le aziende a rischio fallimento” . Il nodo cruciale per evitare un aumento smisurato dei crediti deteriorati nei prossimi mesi, secondo Pier Paolo Masenza, financial servicer leader della società di consulenza Pwc, sarà “la capacità delle banche di aiutare anche le imprese con crediti già catalogati in Utp (unlikely to pay, ovvero inadempienze probabili). Il decreto del governo non copre questa categoria ma molti istituti stanno cercando di sostenere anche queste società”.
Autore: Adriano Bonafede
Fonte: Repubblica