Il disegno di legge che permetterebbe ad alcuni privati e imprese di riacquistare parte dei propri crediti deteriorati sta facendo molto discutere. E non soltanto il settore.
Il rischio, infatti, è che il sistema bancario italiano si riempia nuovamente di sofferenze e che ci sia una fuga da parte degli investitori, soprattutto di quelli stranieri, che ne renda poi difficile un nuovo smaltimento futuro. Tutto questo si ripercuoterebbe inevitabilmente sull’intera economia del Paese e a pagarne le conseguenze sarebbero gli stessi cittadini che, in teoria, si pensa di agevolare.
L’effetto sarebbe più che distorsivo non solo per il mercato dei crediti deteriorati, che al momento si regge su una dinamica competitiva consolidata e riconosciuta come modello virtuoso a livello europeo, ma per le banche stesse e per i debitori che sarebbero discriminati in base alla loro situazione personale. Non tutti, infatti, avrebbero accesso alla possibilità di riacquistare il proprio debito – la misura lo consentirebbe solo nei casi in cui il debito sia stato ceduto – e, inoltre, non tutti avrebbero la capacità economica di farlo.
A beneficiarne, dunque, sarebbero in pochi fortunati, mentre a pagarne le conseguenze sarebbero in tantissimi con un impatto sociale piuttosto pesante e un impulso diseducativo verso chi è abituato ad onorare le proprie posizioni debitorie, ancorché in ritardo e con grande fatica.
La proposta di legge è più o meno la stessa che quattro anni fa era stata presentata dall’allora Senatore Adolfo Urso (oggi Ministro delle Imprese e del Made in Italy) che in un’intervista a Credit Village spiegava che la proposta serviva “a sanare la grande crisi sociale determinata dalla crisi bancaria creditizia che ha posto in grave difficoltà centinaia di migliaia di persone”.
Dopo quattro anni, però, il contesto economico è decisamente diverso; oltre ad aver attraversato una pandemia, è cambiato il panorama del mercato dei crediti: grazie alle cessioni che si sono avuto negli ultimi otto anni l’esposizione delle banche verso gli NPL si è drasticamente ridotta, passando dai 341 miliardi di euro del 2015 ai 58 miliardi di quest’anno. Molti dei principali istituti di credito italiani, da MPS a Carige, si sono salvati da probabili crac proprio cedendo gli stock di sofferenze che pesavano da anni sui propri bilanci. E il timore (per molti la certezza) è che tale misura riporti il nostro Paese a quell’epoca.
La misura proposta dal Governo dovrebbe consentire a “famiglie e piccole imprese insolventi”, con debiti inferiori a 25 milioni di euro (ma quale famiglia o PMI si indebita per quella cifra?) diventati NPL tra il 2015 e il 2021, di riacquistarli dai fondi che li hanno acquistati da istituti di credito nazionali, pagando un premio del 20% sul prezzo a cui sono stati ceduti.
A prescindere dall’arbitrarietà di tale cifra (perché il 20% e non il 10% o il 50%?), il legislatore non tiene conto che tali prezzi sono il frutto di gare tra una molteplicità di investitori, che devono valutare tra le performance attese e gli enormi costi di vigilanza, produttivi e lentezza della giustizia italiana (perennemente sanzionata dall’Europa), per gestire tali crediti.
In sostanza chi ha investito in questo mercato è un soggetto che ha creduto nel nostro Paese ed ha operato all’interno di processi competitivi e trasparenti, nell’ambito di una normativa estremamente rigorosa e standardizzata, senza nulla di grigio.
Secondo la maggior parte degli analisti, l’intervento a gamba tesa del legislatore, in questi complessi equilibri, potrebbe spingere gli investitori internazionali ad abbandonare il nostro mercato dei crediti deteriorati, considerato finora uno dei più floridi e dinamici d’Europa, con conseguenze per l’intero sistema bancario che, a causa della difficoltà a vendere i propri crediti inesigibili, potrebbe limitare la propria capacità di concedere nuovi prestiti.
Ma non solo; con tale provvedimento si metterebbe in crisi anche il sistema delle Gacs, le curve di recupero previste da AMCO, società pubblica, con una notevole ritorsione negativa sulle stesse casse dello Stato e quindi un ulteriore esborso di denaro dei contribuenti.
In sostanza, nel tentativo di risolvere un problema serio di alcuni, quello del sovraindebitamento, si rischia di far saltare per aria il sistema creditizio italiano con conseguenze destabilizzanti per l’intera economia.
Per scongiurare questo rischio, Credit Village, nella persona del suo Direttore Editoriale Gianpaolo Luzzi, si fa portatore di una controproposta semplice quanto dimostratasi efficace nei principali paesi industrializzati che la adottano già da tempo.
La proposta è quella di introdurre finalmente anche nel nostro sistema normativo il fallimento personale, così come è già previsto negli USA, Regno Unito, Francia ecc.
È vero che, in teoria, una legge del genere in Italia c’è già, posto che nel 2012 il governo Monti emanò la Legge 3, la c.d. “salva suicidi”.
Ma essa fu un’occasione mancata perché troppo selettiva, farraginosa e di difficile attuazione. Basta vedere come in 11 anni di vita, quanti pochi debitori ne hanno potuto usufruire. Si tratterebbe quindi di partire da lì e, a imitazione di come regolamentato efficacemente altrove, rendere la legge sull’esdebitazione effettivamente fruibile.
Sarebbe una questione di civiltà, oltre che di diritto, e trasversale a livello politico. Farebbe piazza pulita di tutti i tentativi di regolamentazione dirigista del mercato che, senza scomodare premi Nobel dell’economia, già Manzoni, nei Promessi Sposi, ne spiegava l’inutilità e il pericolo di subirne poi effetti peggiori del male che vorrebbe combattere. Lasciando al mercato la libertà di trovare nuovi equilibri in funzione di tale opportunità anche per i privati, così come per le aziende.
Il disegno di legge che permetterebbe ad alcuni privati e imprese di riacquistare parte dei propri crediti deteriorati sta facendo molto discutere. E non soltanto il settore.
Il rischio, infatti, è che il sistema bancario italiano si riempia nuovamente di sofferenze e che ci sia una fuga da parte degli investitori, soprattutto di quelli stranieri, che ne renda poi difficile un nuovo smaltimento futuro. Tutto questo si ripercuoterebbe inevitabilmente sull’intera economia del Paese e a pagarne le conseguenze sarebbero gli stessi cittadini che, in teoria, si pensa di agevolare.
L’effetto sarebbe più che distorsivo non solo per il mercato dei crediti deteriorati, che al momento si regge su una dinamica competitiva consolidata e riconosciuta come modello virtuoso a livello europeo, ma per le banche stesse e per i debitori che sarebbero discriminati in base alla loro situazione personale. Non tutti, infatti, avrebbero accesso alla possibilità di riacquistare il proprio debito – la misura lo consentirebbe solo nei casi in cui il debito sia stato ceduto – e, inoltre, non tutti avrebbero la capacità economica di farlo.
A beneficiarne, dunque, sarebbero in pochi fortunati, mentre a pagarne le conseguenze sarebbero in tantissimi con un impatto sociale piuttosto pesante e un impulso diseducativo verso chi è abituato ad onorare le proprie posizioni debitorie, ancorché in ritardo e con grande fatica.
La proposta di legge è più o meno la stessa che quattro anni fa era stata presentata dall’allora Senatore Adolfo Urso (oggi Ministro delle Imprese e del Made in Italy) che in un’intervista a Credit Village spiegava che la proposta serviva “a sanare la grande crisi sociale determinata dalla crisi bancaria creditizia che ha posto in grave difficoltà centinaia di migliaia di persone”.
Dopo quattro anni, però, il contesto economico è decisamente diverso; oltre ad aver attraversato una pandemia, è cambiato il panorama del mercato dei crediti: grazie alle cessioni che si sono avuto negli ultimi otto anni l’esposizione delle banche verso gli NPL si è drasticamente ridotta, passando dai 341 miliardi di euro del 2015 ai 58 miliardi di quest’anno. Molti dei principali istituti di credito italiani, da MPS a Carige, si sono salvati da probabili crac proprio cedendo gli stock di sofferenze che pesavano da anni sui propri bilanci. E il timore (per molti la certezza) è che tale misura riporti il nostro Paese a quell’epoca.
La misura proposta dal Governo dovrebbe consentire a “famiglie e piccole imprese insolventi”, con debiti inferiori a 25 milioni di euro (ma quale famiglia o PMI si indebita per quella cifra?) diventati NPL tra il 2015 e il 2021, di riacquistarli dai fondi che li hanno acquistati da istituti di credito nazionali, pagando un premio del 20% sul prezzo a cui sono stati ceduti.
A prescindere dall’arbitrarietà di tale cifra (perché il 20% e non il 10% o il 50%?), il legislatore non tiene conto che tali prezzi sono il frutto di gare tra una molteplicità di investitori, che devono valutare tra le performance attese e gli enormi costi di vigilanza, produttivi e lentezza della giustizia italiana (perennemente sanzionata dall’Europa), per gestire tali crediti.
In sostanza chi ha investito in questo mercato è un soggetto che ha creduto nel nostro Paese ed ha operato all’interno di processi competitivi e trasparenti, nell’ambito di una normativa estremamente rigorosa e standardizzata, senza nulla di grigio.
Secondo la maggior parte degli analisti, l’intervento a gamba tesa del legislatore, in questi complessi equilibri, potrebbe spingere gli investitori internazionali ad abbandonare il nostro mercato dei crediti deteriorati, considerato finora uno dei più floridi e dinamici d’Europa, con conseguenze per l’intero sistema bancario che, a causa della difficoltà a vendere i propri crediti inesigibili, potrebbe limitare la propria capacità di concedere nuovi prestiti.
Ma non solo; con tale provvedimento si metterebbe in crisi anche il sistema delle Gacs, le curve di recupero previste da AMCO, società pubblica, con una notevole ritorsione negativa sulle stesse casse dello Stato e quindi un ulteriore esborso di denaro dei contribuenti.
In sostanza, nel tentativo di risolvere un problema serio di alcuni, quello del sovraindebitamento, si rischia di far saltare per aria il sistema creditizio italiano con conseguenze destabilizzanti per l’intera economia.
Per scongiurare questo rischio, Credit Village, nella persona del suo Direttore Editoriale Gianpaolo Luzzi, si fa portatore di una controproposta semplice quanto dimostratasi efficace nei principali paesi industrializzati che la adottano già da tempo.
La proposta è quella di introdurre finalmente anche nel nostro sistema normativo il fallimento personale, così come è già previsto negli USA, Regno Unito, Francia ecc.
È vero che, in teoria, una legge del genere in Italia c’è già, posto che nel 2012 il governo Monti emanò la Legge 3, la c.d. “salva suicidi”.
Ma essa fu un’occasione mancata perché troppo selettiva, farraginosa e di difficile attuazione. Basta vedere come in 11 anni di vita, quanti pochi debitori ne hanno potuto usufruire. Si tratterebbe quindi di partire da lì e, a imitazione di come regolamentato efficacemente altrove, rendere la legge sull’esdebitazione effettivamente fruibile.
Sarebbe una questione di civiltà, oltre che di diritto, e trasversale a livello politico. Farebbe piazza pulita di tutti i tentativi di regolamentazione dirigista del mercato che, senza scomodare premi Nobel dell’economia, già Manzoni, nei Promessi Sposi, ne spiegava l’inutilità e il pericolo di subirne poi effetti peggiori del male che vorrebbe combattere. Lasciando al mercato la libertà di trovare nuovi equilibri in funzione di tale opportunità anche per i privati, così come per le aziende.