Dottor Caraffini, ci racconta qualcosa di Lei, il percorso lavorativo che l’ha portata a ricoprire il suo ruolo attuale?
S.C. Mi sono laureato al Politecnico di Milano ed ho ottenuto un dottorato di ricerca presso l’University of Illinois at Chicago.
Nei 12 anni successivi sono stato consulente di direzione per The Boston Consulting Group e McKinsey&Company assistendo istituti di credito, società finanziarie ed assicurative in Italia, Europa e Medio Oriente. Nel 2009 ho fondato l’ufficio di McKinsey & Company a Kiev (Ucraina) dove ho vissuto per due anni ricoprendo anche il ruolo di responsabile Operations per i clienti finanziari in Europa Centrale ed Orientale. Nel 2011 ho assunto la carica di Vicedirettore Generale
in Hypo Alpe Adria Bank a Udine, guidando dal 2015 il processo di “de-leveraging” della Banca per una totale riduzione di oltre 3 miliardi di euro di GBV. Nel marzo 2020 ho assunto la carica di Amministratore Delegato di Si Collection SpA in cui ho introdotto l’attività di gestione dei crediti garantiti, in aggiunta a quella storica sui crediti chirografari.
Qual è l’immagine che più le viene in mente per raccontare questo periodo storico di crisi e ripensamento?
S.C. C’è una frase di Blaise Pascal, filosofo e genio matematico del ‘600 francese, che ho sempre considerato un’interessante provocazione e che in questi ultimi due difficili anni mi è spesso tornata alla mente. Così scrive Pascal: “Quando talvolta mi sono accinto a considerare le diverse agitazioni degli uomini e i pericolo e le pene cui si espongono a corte, in guerra, e che sono causa di tante liti, di tante passioni, di tante ardite imprese e di tante azioni spesso cattive, ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una camera”. Provocatoria, ma anche in apparenza così poco pertinente in un mondo che lo stupefacente progresso tecnologico ha reso prima di tutto profondamente ed istantaneamente interconnesso, mondo in cui le “camere” nei fatti non esistono più come spazi fisici limitanti, ma sono piuttosto partizioni di un universo virtuale ed etereo in cui ritagliare esperienze, in cui costruire e muoversi un mondo che di fatto non esiste, come nel caso dell’alienante “meta verso”.
Un’immagine, quella della camera in cui stare chiusi, che è diventata particolarmente evocativa in questi ultimi anni di pandemia.
S.C. Questa acuta affermazione di Pascal pare quasi ostinata e sottilmente beffarda nel descrivere, nel fotografare, proprio quello che abbiamo vissuto in questi ultimi anni, ancora di più in questi ultimi mesi. “…restare tranquilli in una camera” pare davvero l’opposto di quello che occorre per “muovere” il business, eppure è quello che oggettivamente ci siamo trovati a vivere a partire dal lockdown del marzo 2020: chiusi in una “camera” abbiamo imparato a fare business con lo smartworking, in una “camera” siamo stati relegati a causa del congelamento dei rapporti sociali, tenuti in vita con i device digitali.
Tutto profondamente innaturale, vero, ma anche una potente sfida a riflettere sulla limitatezza e, mi sia permesso, sulla fragilità della condizione umana.
Una fragilità che ci pare di aver toccato con mano, con un’emergenza sanitaria globale che da almeno un secolo non si presentava e che ha sgretolato interi settori economici, in un modo che si pensava impossibile.
Una fragilità che si riflette anche sul mercato, in modo particolare su quello dei crediti?
S.C. Il credito in Italia, ed in gran parte dell’Occidente, ha subito lo shock profondo della crisi sub-prime innescata dal fallimento Lehman Brothers. L’onda lunga degli NPL ha raggiunto in Italia il suo apice nel 2015, anno in cui la “neonata” macchina del servicing ha cominciato a causarne efficacemente il deflusso. Credo che proprio quel picco abbia reso evidente in modo plastico una fragilità enorme del sistema del credito, nella sua intrinseca incapacità di affrontare un problema, quello del recupero dei crediti inesigibili, che fino allora era rimasto latente e forse mai veramente percepito nella sua gravità.
Ma la macchina si mise in moto. Chi ha ceduto i crediti ha avuto occasione di fare una pulizia profonda, smarcandosi da una situazione che era diventata potenzialmente letale, ed ha, soprattutto, “imparato” a tenere gli NPL sotto controllo con cessioni ripetute e frequenti.
Quello che talvolta si dimentica è che molti di questi crediti negli ultimi dieci anni sono per lo più passati di mano, dalle banche agli investitori, dai “libri” delle banche ai noteholders degli SPV; in gran parte ancora esiste in termini di “outstanding GBV”, ma, passando attraverso numerosi tentativi, la loro recuperabilità è ad oggi davvero molto bassa, al punto da rendere il costo della stessa attività di recupero talvolta non sostenibile.
Sembra anche questo essere un indice di una attuale fragilità del business?
S.C. Certamente sì. Oggi si lavorano prevalentemente i crediti del secondario: si stima che circa 300 miliardi siano passati dalle banche ad investitori che li gestiscono attraverso servicer. Stiamo parlando di 300 miliardi di NPL di fatto connotati, come detto, da una bassa recuperabilità.
In questa situazione, però, è tutto più difficile: le pratiche su cui si riesce ad incassare sono un’esigua percentuale, diventa cruciale capire quelle su cui vale la pena fare un serio sforzo ancora prima che lo sforzo stesso venga compiuto. L’attività di esazione domiciliare risulta inevitabilmente e fortemente penalizzata: per un procuratore può essere antieconomico lavorare un lotto di bassa recuperabilità.
Vede, durante questi due anni di pandemia, ci siamo preoccupati molto e giustamente dell’impatto che il lock-down e le restrizioni potevano avere sulle attività di recupero. Sicuramente effetti ce ne sono stati, ed è stata necessaria una forte capacità di adattamento; ma il fenomeno di maggior rilievo che adesso osserviamo è che i volumi di NPL attualmente in gestione non sono più in grado di esprimere quegli incassi, e quindi quei ritorni, che ci si aspetterebbe. Questo è un problema sia per gli investitori, che non vedono materializzarsi i ritorni previsti da business plan, sia per i servicer, che non trovano giusta remunerazione per l’attività di recupero.
C’è insomma un forte bisogno di crediti di mercato primario, più lavorabili, più “freschi”.
Come si stanno adattando i players del settore a questa situazione?
S.C. Gli originator, banche in primis, hanno imparato la lezione di non far accumulare gli NPL, ma di mandarli sul mercato appena vengono classificati come “sofferenze”. Questo è diventato estremamente conveniente per due ragioni: la prima è che esiste una platea di investitori e servicer (e spesso un investitore è anche servicer) che hanno un forte interesse verso nuovi volumi e sono disposti a pagarli bene, talvolta anche troppo bene. La seconda è che avendo pochi crediti non performanti “in casa”, per le banche diventa antieconomico mantenere una struttura interna che li lavori: meglio mettere le proprie persone a fare altro e liberarsi subito dei crediti, specialmente se di importo minore e privi di garanzie.
Bisogna dire che questo approccio appare ancora più sensato in presenza di due fenomeni transitori legati alla pandemia: bassa attività di erogazione (per lo più con garanzie statali), e moratoria sui crediti che consente di ritardare il decadimento delle posizioni. Quando questi due effetti verranno meno, sarà interessante vedere cosa succederà… si parla da tempo di una poderosa ondata di NPL: dai colloqui con i numerosi amici bancari non se ne percepisce in maniera chiara né le dimensioni né le tempistiche. Personalmente non faccio alcuna previsione in merito.
Ma questo non genera tensione in chi i crediti li deve comprare ed in chi li deve gestire?
S.C. Certamente. È ben noto che le GACS sono state uno strumento opportuno nel loro ruolo di efficace catalizzatore delle cessioni, aggregandone i volumi e rendendoli appetibili ad una vasta platea di investitori. Esse hanno anche favorito il consolidamento del settore: minor numero di operazioni più grosse hanno attirato investitori più grandi, che hanno in molti casi costituito una loro macchina interna (se non l’avevano già). Questo ha ampliato il divario tra i servicer, tra i pochi più grandi ed i tanti più piccoli.
Un servicer di dimensioni minori che non può contare sulle lavorazioni di portafogli di proprietà fa sicuramente molta fatica ad assorbire i costi fissi, e l’opzione di diventare sub-servicer su portafogli del mercato secondario poco redditizi, non è una soluzione ai suoi problemi.
Dall’altra parte i grandi, con poderose macchine di recupero da mantenere, hanno un costante bisogno di nuovi volumi da acquistare: questo ha in molte situazioni dato una spinta alla crescita delle operazioni di cessione.
Come l’attuale quadro macroeconomico può impattare questa situazione?
S.C. Al netto delle incognite sopraggiunte anche con l’instabilità geopolitica dovuta alla guerra in Ucraina (che sicuramente non avrà un impatto positivo), la crescita economica ha già subito un rallentamento rispetto alle previsioni, con tanti settori ancora lontani dal ritorno ad una situazione pre-pandemia.
La gestione della crisi pandemica in Italia ha fatto crescere il debito pubblico oltre il 150% del PIL, e lì è rimasto anche dopo la crescita del PIL del 2021. In crescita anche pressione fiscale ed inflazione, quest’ultima ulteriormente spinta verso l’alto dai recenti rincari energetici.
È un quadro di difficoltà per le aziende ed i privati. Le prime saranno prevedibilmente refrattarie ad investire, con uno scarso appetito per il credito; i secondi ridurranno i consumi continuando ad accumulare liquidità, come dimostrato dai livelli record ed in costante aumento dei depositi sui conti correnti (v. dati Banca d’Italia).
Vedendo ovunque profonda incertezza, siamo ancora lontani da un ritorno alla normalità di tutto il sistema economico.
Crediamo che nel breve l’attività di recupero continuerà ad essere penalizzata da questa situazione, salvo ipotizzare situazioni particolari di crescita dovuta a fenomeni estemporanei, come l’attesa esplosione di bollette impagate a seguito dei rincari energetici.
In questo contesto di fragilità come si muove Si Collection?
S.C. È stata precisa volontà del nostro azionista (Alchemy Partners) di rimanere fedeli alla strategia di “pure servicer”. Prendiamo solo mandati di gestione garantendo il recupero su tutte le fasi della lavorazione: dall’arricchimento del portafoglio attraverso informazioni commerciali ed investigate, passando poi attraverso tutte le fasi del recupero telefonico e del recupero domiciliare, fino a tutto il ciclo di lavorazione master legal. Tutto è svolto e gestito da nostro personale presso i nostri uffici, non abbiamo sedi distaccate.
Il criterio guida è la performance di recupero: sappiamo che è quello su cui ci misura il cliente e sappiamo che è quello su cui possiamo costruire la nostra credibilità.
Ci è piaciuta molto una pregevole analisi sull’industria del recupero crediti svolta da Studio Ambrosetti per conto di UNIREC: nel suo ruolo essenziale di tutela del valore economico, il mondo del recupero crediti contribuisce per qualche punto percentuale al PIL del Paese. In questo senso, crediamo di poterci definire un piccolo ingranaggio che contribuisce a far girare il meccanismo economico del Paese.
Quindi alla fine una visione ottimistica?
S.C. Sì. È un momento storico di grande incertezza, sarebbe assurdo negarlo. Ma l’economia italiana resta tra le più sviluppate al mondo, con una capacità unica di costruirsi opportunità anche e soprattutto attraverso le situazioni più difficili.
Il nostro settore ha subito inevitabili effetti penalizzanti legati alla pandemia, ed ha soltanto bisogno di un ritorno alla normalità.
Nel momento in cui il quadro generale ritornerà dentro parametri normali, crediamo che ci sarà un ancor più pressante bisogno di un servizio di recupero crediti di qualità.
Per concludere, se ce lo consente, vorremmo farle una domanda di carattere più personale: quali sono le sue passioni?
S.C. Nel tempo libero gioco a pallacanestro, una meravigliosa passione giovanile che non ho mai abbandonato. Sono anche sempre stato un velista, sport che praticavo anche negli Stati Uniti, e che mi vede, quando gli impegni lo consentono, in regate d’altura nel Mediterraneo e con vele d’epoca in Alto Adriatico.
Dottor Caraffini, ci racconta qualcosa di Lei, il percorso lavorativo che l’ha portata a ricoprire il suo ruolo attuale?
S.C. Mi sono laureato al Politecnico di Milano ed ho ottenuto un dottorato di ricerca presso l’University of Illinois at Chicago.
Nei 12 anni successivi sono stato consulente di direzione per The Boston Consulting Group e McKinsey&Company assistendo istituti di credito, società finanziarie ed assicurative in Italia, Europa e Medio Oriente. Nel 2009 ho fondato l’ufficio di McKinsey & Company a Kiev (Ucraina) dove ho vissuto per due anni ricoprendo anche il ruolo di responsabile Operations per i clienti finanziari in Europa Centrale ed Orientale. Nel 2011 ho assunto la carica di Vicedirettore Generale
in Hypo Alpe Adria Bank a Udine, guidando dal 2015 il processo di “de-leveraging” della Banca per una totale riduzione di oltre 3 miliardi di euro di GBV. Nel marzo 2020 ho assunto la carica di Amministratore Delegato di Si Collection SpA in cui ho introdotto l’attività di gestione dei crediti garantiti, in aggiunta a quella storica sui crediti chirografari.
Qual è l’immagine che più le viene in mente per raccontare questo periodo storico di crisi e ripensamento?
S.C. C’è una frase di Blaise Pascal, filosofo e genio matematico del ‘600 francese, che ho sempre considerato un’interessante provocazione e che in questi ultimi due difficili anni mi è spesso tornata alla mente. Così scrive Pascal: “Quando talvolta mi sono accinto a considerare le diverse agitazioni degli uomini e i pericolo e le pene cui si espongono a corte, in guerra, e che sono causa di tante liti, di tante passioni, di tante ardite imprese e di tante azioni spesso cattive, ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una camera”. Provocatoria, ma anche in apparenza così poco pertinente in un mondo che lo stupefacente progresso tecnologico ha reso prima di tutto profondamente ed istantaneamente interconnesso, mondo in cui le “camere” nei fatti non esistono più come spazi fisici limitanti, ma sono piuttosto partizioni di un universo virtuale ed etereo in cui ritagliare esperienze, in cui costruire e muoversi un mondo che di fatto non esiste, come nel caso dell’alienante “meta verso”.
Un’immagine, quella della camera in cui stare chiusi, che è diventata particolarmente evocativa in questi ultimi anni di pandemia.
S.C. Questa acuta affermazione di Pascal pare quasi ostinata e sottilmente beffarda nel descrivere, nel fotografare, proprio quello che abbiamo vissuto in questi ultimi anni, ancora di più in questi ultimi mesi. “…restare tranquilli in una camera” pare davvero l’opposto di quello che occorre per “muovere” il business, eppure è quello che oggettivamente ci siamo trovati a vivere a partire dal lockdown del marzo 2020: chiusi in una “camera” abbiamo imparato a fare business con lo smartworking, in una “camera” siamo stati relegati a causa del congelamento dei rapporti sociali, tenuti in vita con i device digitali.
Tutto profondamente innaturale, vero, ma anche una potente sfida a riflettere sulla limitatezza e, mi sia permesso, sulla fragilità della condizione umana.
Una fragilità che ci pare di aver toccato con mano, con un’emergenza sanitaria globale che da almeno un secolo non si presentava e che ha sgretolato interi settori economici, in un modo che si pensava impossibile.
Una fragilità che si riflette anche sul mercato, in modo particolare su quello dei crediti?
S.C. Il credito in Italia, ed in gran parte dell’Occidente, ha subito lo shock profondo della crisi sub-prime innescata dal fallimento Lehman Brothers. L’onda lunga degli NPL ha raggiunto in Italia il suo apice nel 2015, anno in cui la “neonata” macchina del servicing ha cominciato a causarne efficacemente il deflusso. Credo che proprio quel picco abbia reso evidente in modo plastico una fragilità enorme del sistema del credito, nella sua intrinseca incapacità di affrontare un problema, quello del recupero dei crediti inesigibili, che fino allora era rimasto latente e forse mai veramente percepito nella sua gravità.
Ma la macchina si mise in moto. Chi ha ceduto i crediti ha avuto occasione di fare una pulizia profonda, smarcandosi da una situazione che era diventata potenzialmente letale, ed ha, soprattutto, “imparato” a tenere gli NPL sotto controllo con cessioni ripetute e frequenti.
Quello che talvolta si dimentica è che molti di questi crediti negli ultimi dieci anni sono per lo più passati di mano, dalle banche agli investitori, dai “libri” delle banche ai noteholders degli SPV; in gran parte ancora esiste in termini di “outstanding GBV”, ma, passando attraverso numerosi tentativi, la loro recuperabilità è ad oggi davvero molto bassa, al punto da rendere il costo della stessa attività di recupero talvolta non sostenibile.
Sembra anche questo essere un indice di una attuale fragilità del business?
S.C. Certamente sì. Oggi si lavorano prevalentemente i crediti del secondario: si stima che circa 300 miliardi siano passati dalle banche ad investitori che li gestiscono attraverso servicer. Stiamo parlando di 300 miliardi di NPL di fatto connotati, come detto, da una bassa recuperabilità.
In questa situazione, però, è tutto più difficile: le pratiche su cui si riesce ad incassare sono un’esigua percentuale, diventa cruciale capire quelle su cui vale la pena fare un serio sforzo ancora prima che lo sforzo stesso venga compiuto. L’attività di esazione domiciliare risulta inevitabilmente e fortemente penalizzata: per un procuratore può essere antieconomico lavorare un lotto di bassa recuperabilità.
Vede, durante questi due anni di pandemia, ci siamo preoccupati molto e giustamente dell’impatto che il lock-down e le restrizioni potevano avere sulle attività di recupero. Sicuramente effetti ce ne sono stati, ed è stata necessaria una forte capacità di adattamento; ma il fenomeno di maggior rilievo che adesso osserviamo è che i volumi di NPL attualmente in gestione non sono più in grado di esprimere quegli incassi, e quindi quei ritorni, che ci si aspetterebbe. Questo è un problema sia per gli investitori, che non vedono materializzarsi i ritorni previsti da business plan, sia per i servicer, che non trovano giusta remunerazione per l’attività di recupero.
C’è insomma un forte bisogno di crediti di mercato primario, più lavorabili, più “freschi”.
Come si stanno adattando i players del settore a questa situazione?
S.C. Gli originator, banche in primis, hanno imparato la lezione di non far accumulare gli NPL, ma di mandarli sul mercato appena vengono classificati come “sofferenze”. Questo è diventato estremamente conveniente per due ragioni: la prima è che esiste una platea di investitori e servicer (e spesso un investitore è anche servicer) che hanno un forte interesse verso nuovi volumi e sono disposti a pagarli bene, talvolta anche troppo bene. La seconda è che avendo pochi crediti non performanti “in casa”, per le banche diventa antieconomico mantenere una struttura interna che li lavori: meglio mettere le proprie persone a fare altro e liberarsi subito dei crediti, specialmente se di importo minore e privi di garanzie.
Bisogna dire che questo approccio appare ancora più sensato in presenza di due fenomeni transitori legati alla pandemia: bassa attività di erogazione (per lo più con garanzie statali), e moratoria sui crediti che consente di ritardare il decadimento delle posizioni. Quando questi due effetti verranno meno, sarà interessante vedere cosa succederà… si parla da tempo di una poderosa ondata di NPL: dai colloqui con i numerosi amici bancari non se ne percepisce in maniera chiara né le dimensioni né le tempistiche. Personalmente non faccio alcuna previsione in merito.
Ma questo non genera tensione in chi i crediti li deve comprare ed in chi li deve gestire?
S.C. Certamente. È ben noto che le GACS sono state uno strumento opportuno nel loro ruolo di efficace catalizzatore delle cessioni, aggregandone i volumi e rendendoli appetibili ad una vasta platea di investitori. Esse hanno anche favorito il consolidamento del settore: minor numero di operazioni più grosse hanno attirato investitori più grandi, che hanno in molti casi costituito una loro macchina interna (se non l’avevano già). Questo ha ampliato il divario tra i servicer, tra i pochi più grandi ed i tanti più piccoli.
Un servicer di dimensioni minori che non può contare sulle lavorazioni di portafogli di proprietà fa sicuramente molta fatica ad assorbire i costi fissi, e l’opzione di diventare sub-servicer su portafogli del mercato secondario poco redditizi, non è una soluzione ai suoi problemi.
Dall’altra parte i grandi, con poderose macchine di recupero da mantenere, hanno un costante bisogno di nuovi volumi da acquistare: questo ha in molte situazioni dato una spinta alla crescita delle operazioni di cessione.
Come l’attuale quadro macroeconomico può impattare questa situazione?
S.C. Al netto delle incognite sopraggiunte anche con l’instabilità geopolitica dovuta alla guerra in Ucraina (che sicuramente non avrà un impatto positivo), la crescita economica ha già subito un rallentamento rispetto alle previsioni, con tanti settori ancora lontani dal ritorno ad una situazione pre-pandemia.
La gestione della crisi pandemica in Italia ha fatto crescere il debito pubblico oltre il 150% del PIL, e lì è rimasto anche dopo la crescita del PIL del 2021. In crescita anche pressione fiscale ed inflazione, quest’ultima ulteriormente spinta verso l’alto dai recenti rincari energetici.
È un quadro di difficoltà per le aziende ed i privati. Le prime saranno prevedibilmente refrattarie ad investire, con uno scarso appetito per il credito; i secondi ridurranno i consumi continuando ad accumulare liquidità, come dimostrato dai livelli record ed in costante aumento dei depositi sui conti correnti (v. dati Banca d’Italia).
Vedendo ovunque profonda incertezza, siamo ancora lontani da un ritorno alla normalità di tutto il sistema economico.
Crediamo che nel breve l’attività di recupero continuerà ad essere penalizzata da questa situazione, salvo ipotizzare situazioni particolari di crescita dovuta a fenomeni estemporanei, come l’attesa esplosione di bollette impagate a seguito dei rincari energetici.
In questo contesto di fragilità come si muove Si Collection?
S.C. È stata precisa volontà del nostro azionista (Alchemy Partners) di rimanere fedeli alla strategia di “pure servicer”. Prendiamo solo mandati di gestione garantendo il recupero su tutte le fasi della lavorazione: dall’arricchimento del portafoglio attraverso informazioni commerciali ed investigate, passando poi attraverso tutte le fasi del recupero telefonico e del recupero domiciliare, fino a tutto il ciclo di lavorazione master legal. Tutto è svolto e gestito da nostro personale presso i nostri uffici, non abbiamo sedi distaccate.
Il criterio guida è la performance di recupero: sappiamo che è quello su cui ci misura il cliente e sappiamo che è quello su cui possiamo costruire la nostra credibilità.
Ci è piaciuta molto una pregevole analisi sull’industria del recupero crediti svolta da Studio Ambrosetti per conto di UNIREC: nel suo ruolo essenziale di tutela del valore economico, il mondo del recupero crediti contribuisce per qualche punto percentuale al PIL del Paese. In questo senso, crediamo di poterci definire un piccolo ingranaggio che contribuisce a far girare il meccanismo economico del Paese.
Quindi alla fine una visione ottimistica?
S.C. Sì. È un momento storico di grande incertezza, sarebbe assurdo negarlo. Ma l’economia italiana resta tra le più sviluppate al mondo, con una capacità unica di costruirsi opportunità anche e soprattutto attraverso le situazioni più difficili.
Il nostro settore ha subito inevitabili effetti penalizzanti legati alla pandemia, ed ha soltanto bisogno di un ritorno alla normalità.
Nel momento in cui il quadro generale ritornerà dentro parametri normali, crediamo che ci sarà un ancor più pressante bisogno di un servizio di recupero crediti di qualità.
Per concludere, se ce lo consente, vorremmo farle una domanda di carattere più personale: quali sono le sue passioni?
S.C. Nel tempo libero gioco a pallacanestro, una meravigliosa passione giovanile che non ho mai abbandonato. Sono anche sempre stato un velista, sport che praticavo anche negli Stati Uniti, e che mi vede, quando gli impegni lo consentono, in regate d’altura nel Mediterraneo e con vele d’epoca in Alto Adriatico.