1) Caratteristiche ed evoluzione del mercato italiano
Alcuni numeri noti per cominciare.
Fino al 2007 gli NPE in Italia sommavano circa 76 miliardi, valore più o meno stabile da alcuni anni: 47 miliardi di sofferenze e 28 miliardi di UTP.
Dopo la crisi del 2008 lo stock comincia rapidamente a crescere. Nel 2008 erano già 86 miliardi, 133 nel 2009, 158 nel 2010, e così via fino all’acme di 362 miliardi nel 2015 (201 sofferenze, 141 UTP e scaduti, 20 ceduti a terzi).
Fino a quel momento le cessioni massive di sofferenze erano state del tutto marginali poiché strumento poco utilizzato dal 2004 quando erano cessati i benefici fiscali previsti dall’ottima legge 130 del 1999 che aveva introdotto in Italia le cartolarizzazioni.
Nel 2015 in tutta Europa lo stock di crediti deteriorati aveva superato i 1000 miliardi e l’Italia ne deteneva il 36%, ben al di sopra della sua quota di PIL. Un primato dovuto anche alla circostanza che il nostro Paese, contrariamente ad altri partner europei, non aveva reagito prontamente alla crescita degli Npe nella prima parte degli anni ’10 . Spagna, Gran Bretagna, Germania e Francia avevano investito centinaia di miliardi pubblici per salvare le loro banche, ma, quando l’Italia, tardivamente nel 2015, chiese all’Europa di costituire una bad bank pubblica per gestire gli Npe, le venne opposto il divieto di aiuti di stato ormai imperante dal 2013.
In alternativa, nel 2016, le fu consentito di lanciare il programma GACS che riapriva la strada alle cessioni massive, grazie anche alla moral suasion operata con determinazione dalla BCE sulle banche italiane (le GACS non sono considerate aiuti di Stato, nonostante il Tesoro garantisca agli investitori il rendimento dei titoli ABS emessi per finanziare gli acquisti massivi di Npe, in quanto le fees di tali garanzie sono calcolate a valore di mercato).
In termini di stock a fine anno, nel 2017, su 353 mld di Npe, già 94 erano stati ceduti. Nel 2018 la quota di stock ceduto ammontava a 165 mld, salita a 226 nel 2020. Per il 2021 si stima che il volume complessivamente ceduto raggiunga i 256 mld, che potrebbero salire a 317 mld nel 2023 a fronte di una stima di ben 430 mld complessivi di Npe. Un forte contributo lo stanno dando le cessioni di Utp, operazioni azzardate se si considera che si tratta di controparti non decotte che, statisticamente, ritornano per buona quota in bonis se debitamente assistite dalle banche. Cedendole a liquidatori rischiamo di perdere patrimonio aziendale non trascurabile.
Il fenomeno delle cessioni massive è stato salutato dai Regulators come la formula che ha salvato il sistema bancario italiano, pur non potendosi nascondere che le perdite economiche conseguenti hanno contribuito a costringere molte banche a ricapitalizzarsi per quasi 150 mld in dieci anni anche a causa dei bassi prezzi di cessione che , secondo Banca d’Italia, tra il 2016 ed il 2020 , per le sofferenze, sono stati in media del 20% contro un Nbv del 50%, valore normalmente recuperato dalle banche per le posizioni che si chiudono a gestione interna.
L’elemento positivo che viene messo in evidenza è che sui bilanci delle banche gli Npe sono diminuiti dai 342 mld del 2015 ai 104 mld lordi del 2020, che si ritiene possano aumentare a 113 nel prossimo biennio.
Quello di cui si parla molto meno è che, sotto il profilo macroeconomico, il fenomeno dei crediti anomali in Italia, non solo non è affatto superato, ma anzi è del tutto probabile che peggiori.
L’aver spostato dalle banche ai fondi masse enormi di Npe non ne ha significativamente ridotto la quantità complessiva che grava sull’ economia del paese. Erano 362 mld nel 2015, sono 345 mld nel 2021, nonostante i flussi di nuovi Npe non siano stati superiori a quelli della prima metà del decennio scorso grazie anche ai provvedimenti statali (moratorie, garanzie pubbliche ecc.) messi in campo contro la pandemia.
Alcuni “metadati” macroeconomici.
Nel 2007, i 76 mld di Npe, allora tutti in pancia alle banche, costituivano il 3,43% del Pil (2210 mld) ed il 4,5% del totale dei prestiti bancari (1678 mld).
Nel 2015, i 362 mld di Npe costituivano il 19,7% del Pil (1836 mld) ed il 24% dei prestiti bancari (1408 mld).
Nel 2018, i 348 mld di Npe cubavano ancora il 16 % del Pil (salito a 2091 mld) ed il 26,8% dei prestiti bancari (scesi a 1298 mld).
Nel 2020, i 330 mld di Npe (dei quali, come detto, solo 104 ancora in pancia alle banche) erano tornati a superare il 17% del Pil (1886 mld) ed il 25% dei prestiti bancari (1301).
Questi numeri dimostrano ineluttabilmente che il nostro sistema economico non è riuscito affatto a digerire gli effetti nefasti delle crisi del 2008 e del 2011, tant’è che il credito deteriorato complessivo continua a galleggiare intorno ai 350 mld, di cui 260 circa in mano ai fondi d’investimento cessionari (ben 36 mld sono di Utp).
Poiché, come detto, le previsioni ritengono che nel 2023 si possano raggiungere i 430 mld, sono ben giustificate le preoccupazioni dei Regulator europei e dei governi per il futuro di un sistema economico che non riesce a guarire dalla patologia dei crediti deteriorati.
Ben magra consolazione è data dalla circostanza che, se raggiungessimo nel 2023 i 430 mld di Npe, l’Europa ne registrerebbe ben 1400 mld. Saremo passati dal 36,2% del 2015 (362 su 1000 mld) al 30% del 2023 (430 su 1400).
Questo significherebbe comunque che, non solo le banche dovrebbero continuare a cedere massivamente Npe registrando ulteriori perdite su crediti, ma anche che molti milioni di clienti delle banche (imprese e famiglie) continuerebbero ad essere economicamente marginalizzati ( o zombizzati, come si dice oggi), che il gettito fiscale delle banche sarebbe in contrazione e che i fondi investitori potrebbero continuare a guadagnare senza beneficio per il Fisco italiano grazie alla loro extraterritorialità.
Insomma, stando così le cose, la risposta alla domanda del titolo di questo breve intervento sembra affermativa, tanto più che si va accentuando il fenomeno del passaggio a Stage2 dei crediti in bonis per incremento del rischio di controparte secondo IFRS9. Nel 2019 solo il 9% del totale dei creditori bancari (1887 mld) erano in Stage2. Nel 2021 si stima che arrivino al 16% (304 mld) per crescere al 17% (325 mld) l’anno successivo.
In effetti il fenomeno degli Npe rischia di restare endemico nel nostro paese ancora per molti anni. E per molti anni l’Italia potrebbe mantenere il primato dell’essere il più importante mercato di Npe, tenuto conto che altri paesi, pur avendo stock di crediti deteriorati di valore analogo (Francia) non ricorrono con particolare ampiezza alle cessioni massive, che, come abbiamo visto, se danno sollievo alle banche, non risolvono affatto il problema socioeconomico complessivo.
In realtà le cessioni massive non hanno neanche ottenuto lo scopo, affermato con sicumera dai Regulator, di mettere le banche in condizione di fare nuovo e maggior credito, come dimostra l’andamento degli impieghi bancari per famiglie ed imprese, ammontanti a 1492 mld nel 2007, quando gli Npe erano 76 mld, ridottisi a 1309 alla fine del 1Q del 2021 (comprese moratorie e finanziamenti garantiti dallo Stato), quando gli Npe rimasti nelle banche erano appena 87 mld.
2) Origini e conseguenze
Non v’e dubbio che le origini del fenomeno risiedano prevalentemente nel bancocentrismo tipico del nostro sistema economico.
Una struttura produttiva basata per quasi il 90% su PMI che soddisfano il 90% del loro fabbisogno finanziario grazie al credito bancario da decenni, è intrinsecamente debole ed esposta alla capacità maggiore o minore delle banche di erogare credito.
Nei paesi con strutture economiche mercatocentriche, dove quindi per le imprese è più facile attingere in misura maggiore che da noi al mercato dei capitali, sia di rischio che obbligazionari, il credit crunch bancario ha effetti meno significativi.
Come accade in Italia, le crisi congiunturali costringono le banche a ridurre la loro propensione al rischio, le imprese non trovano fonti alternative di finanziamento e rapidamente diventano a loro volta critiche. Si innesta cosi un circuito perverso che, teoricamente, si autoalimenta tra aumento degli Npe e credit crunch fino alla paralisi del sistema.
Per interrompere questo pericolosa spirale, alla fine deve intervenire lo Stato garantendo i crediti bancari o erogando sovvenzioni, come accaduto nella crisi pandemica, peraltro non esaurita.
Insomma, il bancocentrismo, se ha il merito, nelle fasi congiunturali espansive, di assicurare alle imprese una maggiore e veloce disponibilità di fondi tramite le banche, in fasi recessive ha effetti pro-ciclici molto gravi.
Tra gli effetti conseguenti alle cessioni massive non sufficientemente messi in evidenza, c’è anche quello del peggioramento della LGD che impatta direttamente sul patrimonio di vigilanza delle banche e quindi sulla loro capacita di fare credito.
La LGD (introdotta con Basilea 2) che misura il rischio di perdita su crediti delle singole banche, viene influenzata negativamente dalle perdite dovute alle cessioni di Npe, talché l’aver ceduto massivamente i crediti anomali, non solo ha determinato perdite significative, ma ha anche avuto effetti sul patrimonio di vigilanza il cui valore determina a sua volta la capacità limite delle banche ad assumere rischi erogando credito. La questione ha assunto una tale gravita che se ne è dovuto sterilizzare temporaneamente questo effetto (v. Regolamento UE 876/19).
Questa, che è solo una delle conseguenze derivanti dalle cessioni massive, comporta che le banche riducano il loro attivo (credit crunch) o tentino di migliorarlo qualitativamente riducendo il supporto alle aziende marginali (zombie) ovvero debbano aumentare i mezzi propri e comunque il patrimonio di vigilanza. In ogni caso debbono adottare strategie di derisking.
Se non si riesce a frenare il passaggio dei crediti da bonis a deteriorato, la situazione non potrà che peggiorare. Ma, in un sistema bancocentrico, se il supporto bancario diminuisce, un numero sempre maggiore di clienti in bonis vedrà’ deteriorarsi la propria situazione finanziaria. Lo abbiamo appena visto con la crescita delle posizioni a Stage2.
Contestualizzando questi fenomeni in una fase congiunturale sfavorevole, ci rendiamo immediatamente conto dell’effetto pro-ciclico.
Il sistema bancario – ed è normale – incontra dei limiti insormontabili nel sostenere il fabbisogno economico del sistema produttivo, limiti tanto più ridotti se i Regulator, come stanno facendo da circa dieci anni, emanano norme di salvaguardia che puntano ad evitare crisi sistemiche del comparto. Ne tutelano, forse, la stabilità (sempre che bolle finanziarie non esplodano), ma a carico dell’efficacia in termini di capacità allocativa del risparmio attraverso il credito.
“Nuova definizione di default”, “calendar provisioning”,” Linee guida Npl” “IFRS9”, “LOM”, ecc. stanno progressivamente debancarizzando il sistema economico nella speranza che il fabbisogno finanziario dell’economia produttiva sia progressivamente sempre più soddisfatto da fonti diverse dalle banche ordinarie.
Ma noi non abbiamo un efficiente e maturo mercato dei capitali.
Controintuitivo è che questa tendenza trovi alimento nel mondo dello Shadow banking, cioè in quel complesso di operatori finanziari non bancari (come vanno ora chiamati secondo il Governatore Visco), non puntigliosamente regolamentati, come sono i fondi d’investimento, i family office ecc.
Il caso italiano è un esempio lampante: il 74% degli Npe, tutti crediti originati da banche ordinarie, sono ormai in mano a fondi d’investimento che hanno finanziato le cessioni massive per oltre 250 mld, di cui circa 90 con Gacs.
La contraddizione sta nel fatto che la iperregolamentazione delle banche ha indotto a spostare enormi volumi di crediti verso soggetti quasi del tutto non regolamentati e non vigilati il cui spirito speculativo potrebbe trasformare, nel tempo, quella che sino ad oggi è stata vista come una soluzione, in un problema.
Non sembra un caso che, proprio di recente, Banca d’Italia si sia sentita in dovere di richiamare l’attenzione dei Servicer vigilati di operazioni di cartolarizzazione ex L.130/99 ad attivare tecniche di controllo molto più severe sui loro “special servicer” (cioè i gestori di fatto dei portafogli ceduti, non soggetti alla vigilanza della Banca d’Italia, ma semplicemente autorizzati del Ministero degli interni). Il che conferma come il Regolatore nazionale abbia intenzione di approfondire comportamenti e modalità operative dei gestori avendo preso atto, finalmente, delle loro potenziali criticità operative che potrebbero, tra l’altro, portare nocumento alle GACS (su 26 operazioni Gacs, ben 17 sono sottoperformanti).
Non ci sorprende. Già da qualche anno mettevamo sull’avviso che l’enorme quantità di Npl trasferiti dalle banche ai servicer, se avrebbe alleviato gli oneri delle banche, avrebbe potuto mettere in difficoltà organizzazioni ben più gracili ed inesperte (e non vigilate).
3) Atri effetti derivati
Le regole stringenti che i Regulators stanno via via emanando per gli operatori bancari hanno anche altre conseguenze.
Per evitare le tanto temute crisi sistemiche, le autorità europee stanno tentando di ridurre il numero degli intermediari creditizi anche puntando ad aumentarne le dimensioni medie grazie a consolidamenti ed accorpamenti.
Come è noto in Europa le banche si dividono tra SI (Significant; con attivo superiore a 30 mld) e LSI (Less significant; con attivo inferiore a 30 mld).
Le SI sono sotto la vigilanza diretta della BCE. Le LSI restano sotto quella della banca centrale nazionale.
Le regole cui soggiacciono le SI sono molto invasive, specie in termini di compliance, il che, tra l’altro comporta costi operativi ingenti. Il motivo è che “sono troppo grandi per fallire”, quindi debbono essere strettamente monitorate e verificate.
Per le LSI, il “principio di proporzionalità” fa sì che le regole siano meno invasive e che quindi la loro adozione comporti costi compatibili con le minori dimensioni.
Peraltro, siccome le LSI in Europa (pur drasticamente diminuite salvo che in Germania) sono circa 5000, i Regulator se ne preoccupano perché “sono troppe per fallire”. Si tenta, quindi, di ridurne il numero ed aumentarne le dimensioni medie per evitare che una crisi sistemica renda ingovernabile un fenomeno di fallimento a catena di piccole banche soggette a normative nazionali differenti.
È però anche vero che la “biodiversità” nel sistema bancario è un prezioso valore. Lo sostengono in molti e sia la Germania che gli USA sono esempi da osservare a questo proposito.
Le grandi banche, anche per i loro sistemi di scoring algoritmici, se sono sicuramente il miglior partner per le grandi aziende (per la valutazione del merito creditizio delle quali i sistemi algoritmici di norma non si applicano), non sono altrettanto adatte a supportare le PMI. Tanto più che sono sempre più orientate a occuparsi di finanza, piuttosto che di credito: guadagnano di più, rischiano meno ed hanno bisogno di meno capitale (e meno risorse umane).
Le Pmi sono certamente meglio assistite dalle banche di territorio, cioè dalle LSI, le banche di prossimità, che adottano modelli di relationship banking più adatti alle imprese minori.
È stato rilevato (BdI) che le LSI, nei momenti peggiori del credit crunch dell’ultimo decennio, hanno meglio supplito al razionamento creditizio delle SI proprio perché hanno una più approfondita conoscenza del cliente che aiuta a valutarne il merito di credito specie nei momenti difficili.
In Italia la maggior parte delle LSI erano BCC e banche popolari.
Da alcuni anni le BCC, per effetto di una sciagurata riforma, sono state quasi tutte assorbite da ICCREA banca e Cassa Centrale, le cui dimensioni da SI hanno imposto anche alle BCC le regole della BCE, disapplicando il principio di proporzionalità.
La conseguenza è che con il passar del tempo le nostre PMI perderanno il beneficio di interfacciarsi con banche di prossimità.
Non sarà un vantaggio, tanto più che come “pseudo Si” queste banche dovranno applicare regole molto severe nelle loro politiche creditizie.
Una delle possibili paradossali conseguenze è che i fondi del PNRR potrebbero far beneficiare molte più imprese straniere di quanto sia desiderabile ed opportuno, grazie ai rating creditizi più elevati di quelli delle imprese italiane che le nostre banche debbono rispettare.
4) Ipotesi de jure condendo e conclusioni
Il tema, come si vede, è estremamente complesso, ma è comunque evidente che, se non si estirpa la endemicità del credito deteriorato italiano, sarà ben difficile che sia il nostro sistema bancario che il sistema Paese possano affrontare con ottimismo il futuro.
Abbiamo detto che il bancocentrismo è “un cane che si morde la coda”: la congiuntura non migliora a sufficienza, le imprese avrebbero bisogno di tempo e sostegno bancario, le banche debbono classificarle a sofferenza e vendere massivamente Npe registrando perdite che ne riducono la capacita di erogare prestiti.
Questo meccanismo va interrotto.
Ma è anche, e forse soprattutto, un problema che può risolvere la politica.
Il legislatore ha creato le GACS per migliorare i prezzi delle cessioni degli Npl. Le cessioni sono avvenute, ma i recuperi non sono soddisfacenti ed i debitori, numerosissimi, fanno fatica a onorare gli impegni assunti anni ed anni fa, ma anche di recente. La pandemia sta facendo il resto.
Le conseguenze sono che si rischia di veder attivate le Gacs, con oneri a carico del debito pubblico, e quindi che le perdite delle banche vengano socializzate, mentre i guadagni dei fondi speculativi saranno tax free.
È un paradosso anche questo di cui forse qualcuno sta prendendo coscienza.
Da questa presa di coscienza una idea che si è trasformata in vari ddl, l’ultimo dei quali è stato calendarizzato finalmente dalla Commissione finanze del Senato.
Lo scopo della norma è tentare, per quanto possibile, di interrompere il circolo vizioso di cui abbiamo parlato sin ora.
In estrema sintesi, il ddl prevede che, se una banca decide di vendere uno o più NPL, i debitori debbono essere preventivamente informati e, se sono in grado di farlo, hanno il diritto di pagare alla banca o al cessionario una cifra superiore anche di poco al prezzo a cui la banca è disposta a vendere quel credito ai fondi.
È una norma di buon senso oltre che di equità. Per quale motivo una banca è disposta a vendere a 20 un mio debito di 100, ma non accetta che io le paghi 25 per liberarmi di quel debito?
Per indurre le banche a non contrastare questo meccanismo virtuoso, il ddl prevede dei benefici fiscali per creditori e debitori, peraltro ben meno onerosi per l ‘Erario del minor gettito dovuto alle perdite su crediti e sicuramente meno politicamente indigesti che pagare ai fondi le GACS.
Per quanto si possa ritenere, giustamente, che una tale norma non elimini del tutto il fenomeno degli Npe in Italia, di sicuro sarebbe una inversione di tendenza che, se anche risolvesse solo la metà’ del problema, impatterebbe per diverse decine di miliardi sullo stock di crediti deteriorati che pesano sul futuro della nostra economia.
1) Caratteristiche ed evoluzione del mercato italiano
Alcuni numeri noti per cominciare.
Fino al 2007 gli NPE in Italia sommavano circa 76 miliardi, valore più o meno stabile da alcuni anni: 47 miliardi di sofferenze e 28 miliardi di UTP.
Dopo la crisi del 2008 lo stock comincia rapidamente a crescere. Nel 2008 erano già 86 miliardi, 133 nel 2009, 158 nel 2010, e così via fino all’acme di 362 miliardi nel 2015 (201 sofferenze, 141 UTP e scaduti, 20 ceduti a terzi).
Fino a quel momento le cessioni massive di sofferenze erano state del tutto marginali poiché strumento poco utilizzato dal 2004 quando erano cessati i benefici fiscali previsti dall’ottima legge 130 del 1999 che aveva introdotto in Italia le cartolarizzazioni.
Nel 2015 in tutta Europa lo stock di crediti deteriorati aveva superato i 1000 miliardi e l’Italia ne deteneva il 36%, ben al di sopra della sua quota di PIL. Un primato dovuto anche alla circostanza che il nostro Paese, contrariamente ad altri partner europei, non aveva reagito prontamente alla crescita degli Npe nella prima parte degli anni ’10 . Spagna, Gran Bretagna, Germania e Francia avevano investito centinaia di miliardi pubblici per salvare le loro banche, ma, quando l’Italia, tardivamente nel 2015, chiese all’Europa di costituire una bad bank pubblica per gestire gli Npe, le venne opposto il divieto di aiuti di stato ormai imperante dal 2013.
In alternativa, nel 2016, le fu consentito di lanciare il programma GACS che riapriva la strada alle cessioni massive, grazie anche alla moral suasion operata con determinazione dalla BCE sulle banche italiane (le GACS non sono considerate aiuti di Stato, nonostante il Tesoro garantisca agli investitori il rendimento dei titoli ABS emessi per finanziare gli acquisti massivi di Npe, in quanto le fees di tali garanzie sono calcolate a valore di mercato).
In termini di stock a fine anno, nel 2017, su 353 mld di Npe, già 94 erano stati ceduti. Nel 2018 la quota di stock ceduto ammontava a 165 mld, salita a 226 nel 2020. Per il 2021 si stima che il volume complessivamente ceduto raggiunga i 256 mld, che potrebbero salire a 317 mld nel 2023 a fronte di una stima di ben 430 mld complessivi di Npe. Un forte contributo lo stanno dando le cessioni di Utp, operazioni azzardate se si considera che si tratta di controparti non decotte che, statisticamente, ritornano per buona quota in bonis se debitamente assistite dalle banche. Cedendole a liquidatori rischiamo di perdere patrimonio aziendale non trascurabile.
Il fenomeno delle cessioni massive è stato salutato dai Regulators come la formula che ha salvato il sistema bancario italiano, pur non potendosi nascondere che le perdite economiche conseguenti hanno contribuito a costringere molte banche a ricapitalizzarsi per quasi 150 mld in dieci anni anche a causa dei bassi prezzi di cessione che , secondo Banca d’Italia, tra il 2016 ed il 2020 , per le sofferenze, sono stati in media del 20% contro un Nbv del 50%, valore normalmente recuperato dalle banche per le posizioni che si chiudono a gestione interna.
L’elemento positivo che viene messo in evidenza è che sui bilanci delle banche gli Npe sono diminuiti dai 342 mld del 2015 ai 104 mld lordi del 2020, che si ritiene possano aumentare a 113 nel prossimo biennio.
Quello di cui si parla molto meno è che, sotto il profilo macroeconomico, il fenomeno dei crediti anomali in Italia, non solo non è affatto superato, ma anzi è del tutto probabile che peggiori.
L’aver spostato dalle banche ai fondi masse enormi di Npe non ne ha significativamente ridotto la quantità complessiva che grava sull’ economia del paese. Erano 362 mld nel 2015, sono 345 mld nel 2021, nonostante i flussi di nuovi Npe non siano stati superiori a quelli della prima metà del decennio scorso grazie anche ai provvedimenti statali (moratorie, garanzie pubbliche ecc.) messi in campo contro la pandemia.
Alcuni “metadati” macroeconomici.
Nel 2007, i 76 mld di Npe, allora tutti in pancia alle banche, costituivano il 3,43% del Pil (2210 mld) ed il 4,5% del totale dei prestiti bancari (1678 mld).
Nel 2015, i 362 mld di Npe costituivano il 19,7% del Pil (1836 mld) ed il 24% dei prestiti bancari (1408 mld).
Nel 2018, i 348 mld di Npe cubavano ancora il 16 % del Pil (salito a 2091 mld) ed il 26,8% dei prestiti bancari (scesi a 1298 mld).
Nel 2020, i 330 mld di Npe (dei quali, come detto, solo 104 ancora in pancia alle banche) erano tornati a superare il 17% del Pil (1886 mld) ed il 25% dei prestiti bancari (1301).
Questi numeri dimostrano ineluttabilmente che il nostro sistema economico non è riuscito affatto a digerire gli effetti nefasti delle crisi del 2008 e del 2011, tant’è che il credito deteriorato complessivo continua a galleggiare intorno ai 350 mld, di cui 260 circa in mano ai fondi d’investimento cessionari (ben 36 mld sono di Utp).
Poiché, come detto, le previsioni ritengono che nel 2023 si possano raggiungere i 430 mld, sono ben giustificate le preoccupazioni dei Regulator europei e dei governi per il futuro di un sistema economico che non riesce a guarire dalla patologia dei crediti deteriorati.
Ben magra consolazione è data dalla circostanza che, se raggiungessimo nel 2023 i 430 mld di Npe, l’Europa ne registrerebbe ben 1400 mld. Saremo passati dal 36,2% del 2015 (362 su 1000 mld) al 30% del 2023 (430 su 1400).
Questo significherebbe comunque che, non solo le banche dovrebbero continuare a cedere massivamente Npe registrando ulteriori perdite su crediti, ma anche che molti milioni di clienti delle banche (imprese e famiglie) continuerebbero ad essere economicamente marginalizzati ( o zombizzati, come si dice oggi), che il gettito fiscale delle banche sarebbe in contrazione e che i fondi investitori potrebbero continuare a guadagnare senza beneficio per il Fisco italiano grazie alla loro extraterritorialità.
Insomma, stando così le cose, la risposta alla domanda del titolo di questo breve intervento sembra affermativa, tanto più che si va accentuando il fenomeno del passaggio a Stage2 dei crediti in bonis per incremento del rischio di controparte secondo IFRS9. Nel 2019 solo il 9% del totale dei creditori bancari (1887 mld) erano in Stage2. Nel 2021 si stima che arrivino al 16% (304 mld) per crescere al 17% (325 mld) l’anno successivo.
In effetti il fenomeno degli Npe rischia di restare endemico nel nostro paese ancora per molti anni. E per molti anni l’Italia potrebbe mantenere il primato dell’essere il più importante mercato di Npe, tenuto conto che altri paesi, pur avendo stock di crediti deteriorati di valore analogo (Francia) non ricorrono con particolare ampiezza alle cessioni massive, che, come abbiamo visto, se danno sollievo alle banche, non risolvono affatto il problema socioeconomico complessivo.
In realtà le cessioni massive non hanno neanche ottenuto lo scopo, affermato con sicumera dai Regulator, di mettere le banche in condizione di fare nuovo e maggior credito, come dimostra l’andamento degli impieghi bancari per famiglie ed imprese, ammontanti a 1492 mld nel 2007, quando gli Npe erano 76 mld, ridottisi a 1309 alla fine del 1Q del 2021 (comprese moratorie e finanziamenti garantiti dallo Stato), quando gli Npe rimasti nelle banche erano appena 87 mld.
2) Origini e conseguenze
Non v’e dubbio che le origini del fenomeno risiedano prevalentemente nel bancocentrismo tipico del nostro sistema economico.
Una struttura produttiva basata per quasi il 90% su PMI che soddisfano il 90% del loro fabbisogno finanziario grazie al credito bancario da decenni, è intrinsecamente debole ed esposta alla capacità maggiore o minore delle banche di erogare credito.
Nei paesi con strutture economiche mercatocentriche, dove quindi per le imprese è più facile attingere in misura maggiore che da noi al mercato dei capitali, sia di rischio che obbligazionari, il credit crunch bancario ha effetti meno significativi.
Come accade in Italia, le crisi congiunturali costringono le banche a ridurre la loro propensione al rischio, le imprese non trovano fonti alternative di finanziamento e rapidamente diventano a loro volta critiche. Si innesta cosi un circuito perverso che, teoricamente, si autoalimenta tra aumento degli Npe e credit crunch fino alla paralisi del sistema.
Per interrompere questo pericolosa spirale, alla fine deve intervenire lo Stato garantendo i crediti bancari o erogando sovvenzioni, come accaduto nella crisi pandemica, peraltro non esaurita.
Insomma, il bancocentrismo, se ha il merito, nelle fasi congiunturali espansive, di assicurare alle imprese una maggiore e veloce disponibilità di fondi tramite le banche, in fasi recessive ha effetti pro-ciclici molto gravi.
Tra gli effetti conseguenti alle cessioni massive non sufficientemente messi in evidenza, c’è anche quello del peggioramento della LGD che impatta direttamente sul patrimonio di vigilanza delle banche e quindi sulla loro capacita di fare credito.
La LGD (introdotta con Basilea 2) che misura il rischio di perdita su crediti delle singole banche, viene influenzata negativamente dalle perdite dovute alle cessioni di Npe, talché l’aver ceduto massivamente i crediti anomali, non solo ha determinato perdite significative, ma ha anche avuto effetti sul patrimonio di vigilanza il cui valore determina a sua volta la capacità limite delle banche ad assumere rischi erogando credito. La questione ha assunto una tale gravita che se ne è dovuto sterilizzare temporaneamente questo effetto (v. Regolamento UE 876/19).
Questa, che è solo una delle conseguenze derivanti dalle cessioni massive, comporta che le banche riducano il loro attivo (credit crunch) o tentino di migliorarlo qualitativamente riducendo il supporto alle aziende marginali (zombie) ovvero debbano aumentare i mezzi propri e comunque il patrimonio di vigilanza. In ogni caso debbono adottare strategie di derisking.
Se non si riesce a frenare il passaggio dei crediti da bonis a deteriorato, la situazione non potrà che peggiorare. Ma, in un sistema bancocentrico, se il supporto bancario diminuisce, un numero sempre maggiore di clienti in bonis vedrà’ deteriorarsi la propria situazione finanziaria. Lo abbiamo appena visto con la crescita delle posizioni a Stage2.
Contestualizzando questi fenomeni in una fase congiunturale sfavorevole, ci rendiamo immediatamente conto dell’effetto pro-ciclico.
Il sistema bancario – ed è normale – incontra dei limiti insormontabili nel sostenere il fabbisogno economico del sistema produttivo, limiti tanto più ridotti se i Regulator, come stanno facendo da circa dieci anni, emanano norme di salvaguardia che puntano ad evitare crisi sistemiche del comparto. Ne tutelano, forse, la stabilità (sempre che bolle finanziarie non esplodano), ma a carico dell’efficacia in termini di capacità allocativa del risparmio attraverso il credito.
“Nuova definizione di default”, “calendar provisioning”,” Linee guida Npl” “IFRS9”, “LOM”, ecc. stanno progressivamente debancarizzando il sistema economico nella speranza che il fabbisogno finanziario dell’economia produttiva sia progressivamente sempre più soddisfatto da fonti diverse dalle banche ordinarie.
Ma noi non abbiamo un efficiente e maturo mercato dei capitali.
Controintuitivo è che questa tendenza trovi alimento nel mondo dello Shadow banking, cioè in quel complesso di operatori finanziari non bancari (come vanno ora chiamati secondo il Governatore Visco), non puntigliosamente regolamentati, come sono i fondi d’investimento, i family office ecc.
Il caso italiano è un esempio lampante: il 74% degli Npe, tutti crediti originati da banche ordinarie, sono ormai in mano a fondi d’investimento che hanno finanziato le cessioni massive per oltre 250 mld, di cui circa 90 con Gacs.
La contraddizione sta nel fatto che la iperregolamentazione delle banche ha indotto a spostare enormi volumi di crediti verso soggetti quasi del tutto non regolamentati e non vigilati il cui spirito speculativo potrebbe trasformare, nel tempo, quella che sino ad oggi è stata vista come una soluzione, in un problema.
Non sembra un caso che, proprio di recente, Banca d’Italia si sia sentita in dovere di richiamare l’attenzione dei Servicer vigilati di operazioni di cartolarizzazione ex L.130/99 ad attivare tecniche di controllo molto più severe sui loro “special servicer” (cioè i gestori di fatto dei portafogli ceduti, non soggetti alla vigilanza della Banca d’Italia, ma semplicemente autorizzati del Ministero degli interni). Il che conferma come il Regolatore nazionale abbia intenzione di approfondire comportamenti e modalità operative dei gestori avendo preso atto, finalmente, delle loro potenziali criticità operative che potrebbero, tra l’altro, portare nocumento alle GACS (su 26 operazioni Gacs, ben 17 sono sottoperformanti).
Non ci sorprende. Già da qualche anno mettevamo sull’avviso che l’enorme quantità di Npl trasferiti dalle banche ai servicer, se avrebbe alleviato gli oneri delle banche, avrebbe potuto mettere in difficoltà organizzazioni ben più gracili ed inesperte (e non vigilate).
3) Atri effetti derivati
Le regole stringenti che i Regulators stanno via via emanando per gli operatori bancari hanno anche altre conseguenze.
Per evitare le tanto temute crisi sistemiche, le autorità europee stanno tentando di ridurre il numero degli intermediari creditizi anche puntando ad aumentarne le dimensioni medie grazie a consolidamenti ed accorpamenti.
Come è noto in Europa le banche si dividono tra SI (Significant; con attivo superiore a 30 mld) e LSI (Less significant; con attivo inferiore a 30 mld).
Le SI sono sotto la vigilanza diretta della BCE. Le LSI restano sotto quella della banca centrale nazionale.
Le regole cui soggiacciono le SI sono molto invasive, specie in termini di compliance, il che, tra l’altro comporta costi operativi ingenti. Il motivo è che “sono troppo grandi per fallire”, quindi debbono essere strettamente monitorate e verificate.
Per le LSI, il “principio di proporzionalità” fa sì che le regole siano meno invasive e che quindi la loro adozione comporti costi compatibili con le minori dimensioni.
Peraltro, siccome le LSI in Europa (pur drasticamente diminuite salvo che in Germania) sono circa 5000, i Regulator se ne preoccupano perché “sono troppe per fallire”. Si tenta, quindi, di ridurne il numero ed aumentarne le dimensioni medie per evitare che una crisi sistemica renda ingovernabile un fenomeno di fallimento a catena di piccole banche soggette a normative nazionali differenti.
È però anche vero che la “biodiversità” nel sistema bancario è un prezioso valore. Lo sostengono in molti e sia la Germania che gli USA sono esempi da osservare a questo proposito.
Le grandi banche, anche per i loro sistemi di scoring algoritmici, se sono sicuramente il miglior partner per le grandi aziende (per la valutazione del merito creditizio delle quali i sistemi algoritmici di norma non si applicano), non sono altrettanto adatte a supportare le PMI. Tanto più che sono sempre più orientate a occuparsi di finanza, piuttosto che di credito: guadagnano di più, rischiano meno ed hanno bisogno di meno capitale (e meno risorse umane).
Le Pmi sono certamente meglio assistite dalle banche di territorio, cioè dalle LSI, le banche di prossimità, che adottano modelli di relationship banking più adatti alle imprese minori.
È stato rilevato (BdI) che le LSI, nei momenti peggiori del credit crunch dell’ultimo decennio, hanno meglio supplito al razionamento creditizio delle SI proprio perché hanno una più approfondita conoscenza del cliente che aiuta a valutarne il merito di credito specie nei momenti difficili.
In Italia la maggior parte delle LSI erano BCC e banche popolari.
Da alcuni anni le BCC, per effetto di una sciagurata riforma, sono state quasi tutte assorbite da ICCREA banca e Cassa Centrale, le cui dimensioni da SI hanno imposto anche alle BCC le regole della BCE, disapplicando il principio di proporzionalità.
La conseguenza è che con il passar del tempo le nostre PMI perderanno il beneficio di interfacciarsi con banche di prossimità.
Non sarà un vantaggio, tanto più che come “pseudo Si” queste banche dovranno applicare regole molto severe nelle loro politiche creditizie.
Una delle possibili paradossali conseguenze è che i fondi del PNRR potrebbero far beneficiare molte più imprese straniere di quanto sia desiderabile ed opportuno, grazie ai rating creditizi più elevati di quelli delle imprese italiane che le nostre banche debbono rispettare.
4) Ipotesi de jure condendo e conclusioni
Il tema, come si vede, è estremamente complesso, ma è comunque evidente che, se non si estirpa la endemicità del credito deteriorato italiano, sarà ben difficile che sia il nostro sistema bancario che il sistema Paese possano affrontare con ottimismo il futuro.
Abbiamo detto che il bancocentrismo è “un cane che si morde la coda”: la congiuntura non migliora a sufficienza, le imprese avrebbero bisogno di tempo e sostegno bancario, le banche debbono classificarle a sofferenza e vendere massivamente Npe registrando perdite che ne riducono la capacita di erogare prestiti.
Questo meccanismo va interrotto.
Ma è anche, e forse soprattutto, un problema che può risolvere la politica.
Il legislatore ha creato le GACS per migliorare i prezzi delle cessioni degli Npl. Le cessioni sono avvenute, ma i recuperi non sono soddisfacenti ed i debitori, numerosissimi, fanno fatica a onorare gli impegni assunti anni ed anni fa, ma anche di recente. La pandemia sta facendo il resto.
Le conseguenze sono che si rischia di veder attivate le Gacs, con oneri a carico del debito pubblico, e quindi che le perdite delle banche vengano socializzate, mentre i guadagni dei fondi speculativi saranno tax free.
È un paradosso anche questo di cui forse qualcuno sta prendendo coscienza.
Da questa presa di coscienza una idea che si è trasformata in vari ddl, l’ultimo dei quali è stato calendarizzato finalmente dalla Commissione finanze del Senato.
Lo scopo della norma è tentare, per quanto possibile, di interrompere il circolo vizioso di cui abbiamo parlato sin ora.
In estrema sintesi, il ddl prevede che, se una banca decide di vendere uno o più NPL, i debitori debbono essere preventivamente informati e, se sono in grado di farlo, hanno il diritto di pagare alla banca o al cessionario una cifra superiore anche di poco al prezzo a cui la banca è disposta a vendere quel credito ai fondi.
È una norma di buon senso oltre che di equità. Per quale motivo una banca è disposta a vendere a 20 un mio debito di 100, ma non accetta che io le paghi 25 per liberarmi di quel debito?
Per indurre le banche a non contrastare questo meccanismo virtuoso, il ddl prevede dei benefici fiscali per creditori e debitori, peraltro ben meno onerosi per l ‘Erario del minor gettito dovuto alle perdite su crediti e sicuramente meno politicamente indigesti che pagare ai fondi le GACS.
Per quanto si possa ritenere, giustamente, che una tale norma non elimini del tutto il fenomeno degli Npe in Italia, di sicuro sarebbe una inversione di tendenza che, se anche risolvesse solo la metà’ del problema, impatterebbe per diverse decine di miliardi sullo stock di crediti deteriorati che pesano sul futuro della nostra economia.