L’ industria italiana del risparmio gestito sta accelerando sugli investimenti Esg, ma nella competizione globale resta nella parte bassa della classifica. Più in alto degli Stati Uniti, però, che negli ultimi quattro anni, guidati dal disinteresse del presidente Donald Trump, hanno battuto il passo, anche se adesso stanno risalendo velocemente la china. La conferma che c’è ancora molto da fare viene dal basso: il 70% dei possessori di prodotti di investimento o accumulo non conosce l’argomento. E tra chi vorrebbe investire «verde» in futuro, al netto dell’indifferenza generata dal non sapere, spicca una minoranza qualificata che vorrebbe una maggior attività degli intermediari nella selezione di prodotti sostenibili adeguati alle sue necessità. Ma anche sapere di più sull’impatto che potrebbe avere un portafoglio più sostenibile sul clima e sulla conservazione delle risorse naturali.
I dati
Questi sono in estrema sintesi i dati di due diverse analisi di Prometeia (che per quanto riguarda quella sugli investitori lavora insieme ad Ipsos), realizzate negli ultimi mesi e interessanti per contestualizzare lo stato dell’arte degli orientamenti sostenibili del nostro sistema. «In Italia, negli ultimi quattro anni, la quota di fondi Esg destinati al retail è passata dal 2,4% al 7% —spiega Sebastiano Mazzoni Perelli, managing director a capo dell’area wealth & asset management di Prometeia —. Parliamo di circa 300 prodotti, di cui 90 acquisiti nell’ultimo anno, per un totale di 41 miliardi di asset». E nel 2020 la raccolta netta per i fondi con la targa Esg è stata positiva per 14 miliardi, mentre per i prodotti tradizionali il bilancio dell’anno pandemico è stato negativo in modo quasi speculare.
Numeri che disegnano una tendenza in forte crescita ben nota a chi lavora nell’industria del risparmio, dove il mercato nazionale e quello globale sono legati senza soluzione di continuità. Non a caso Prometeia, per misurare il polso Esg in casa nostra senza sfuggire ad un confronto internazionale, ha coinvolto 27 asset manager che gestiscono in totale quasi 18 mila miliardi e che si caratterizzano per essere attivi nel Vecchio Continente. Ne è nato uno score che misura le società di gestione con un punteggio da zero a cento su quattro componenti: la quantità di asset Esg e gli sforzi della casa per far crescere una cultura nel campo, la taglia dei team specializzati, la filosofia e il processo di investimento, l’impegno nel promuovere queste tematiche nella stagione delle assemblee e non solo. Aggregati per provenienza geografica , i dati riflettono le tendenze nei vari paesi.
Il risultato? I gestori della Germania sono i primi della classe in tre categorie su quattro. Seguiti da francesi, olandesi e svizzeri. E l’Italia? Rimane sotto la media tre volte su quattro insieme ai britannici. Ma fa sempre meglio degli americani, ultimi in classifica. E batte anche svizzeri e olandesi, a pari merito con gli inglesi, nella categoria dell’impegno green come azionisti di minoranza con 70 punti su 100 (media 68).
«Questo punteggio Esg, basato sulle interviste fatte alle diverse case di investimento e che presenteremo nelle prossime settimane — spiega Mazzoni Perelli — rivela che per ora circa la metà degli asset manager coinvolti è debitamente strutturata per offrire ai risparmiatori un’esperienza di investimento davvero sostenibile».
E qui entra in gioco la prova del nove dalla parte delle famiglie, che Prometeia ed Ipsos sondano ciclicamente con lo studio Wealth Insight. In particolare, il sotto campione di possessori di prodotti di investimento/accumulo interpellato tra gennaio e febbraio (780 persone) ha rivelato di non conoscere le tematiche Esg nel campo della finanza personale nel 70% dei casi. Poi c’è un 18% che sa ma non è interessato ad investire con un indirizzo simile, mentre il 6% impiegherebbe almeno il 10% in fondi o altro con un scopo ambientale/sociale e un ultimo 6% anche più del 10% dei prossimi investimenti. Il 31% dei potenziali investitori animati da propositi green vorrebbe però che l’intermediario di riferimento selezionasse i prodotti più coerenti con il suo profilo e il 25% desidererebbe un’illustrazione delle caratteristiche.
«C’è una chiara richiesta di capire meglio gli effetti di questo tipo di investimento — spiega Mazzoni Perelli —. Quantificando gli impatti materiali che sono in grado di generare e le loro finalità senza utilizzare eccessivi tecnicismi. Le tematiche legate al clima sono quelle più sentite». Ma chi ha un ruolo nell’orientare le scelte dei risparmiatori, conclude Perelli, deve anche spiegare ai propri clienti che investire Esg è anche un modo per coprirsi dai rischi: un investimento non Esg può portare con sé, in futuro, svantaggi che al momento non vengono ancora percepiti correttamente. Perché le normative cambieranno, privilegiando le aziende in grado di gestire il business in modo sostenibile.
Fonte: Il Corriere della Sera
L’ industria italiana del risparmio gestito sta accelerando sugli investimenti Esg, ma nella competizione globale resta nella parte bassa della classifica. Più in alto degli Stati Uniti, però, che negli ultimi quattro anni, guidati dal disinteresse del presidente Donald Trump, hanno battuto il passo, anche se adesso stanno risalendo velocemente la china. La conferma che c’è ancora molto da fare viene dal basso: il 70% dei possessori di prodotti di investimento o accumulo non conosce l’argomento. E tra chi vorrebbe investire «verde» in futuro, al netto dell’indifferenza generata dal non sapere, spicca una minoranza qualificata che vorrebbe una maggior attività degli intermediari nella selezione di prodotti sostenibili adeguati alle sue necessità. Ma anche sapere di più sull’impatto che potrebbe avere un portafoglio più sostenibile sul clima e sulla conservazione delle risorse naturali.
I dati
Questi sono in estrema sintesi i dati di due diverse analisi di Prometeia (che per quanto riguarda quella sugli investitori lavora insieme ad Ipsos), realizzate negli ultimi mesi e interessanti per contestualizzare lo stato dell’arte degli orientamenti sostenibili del nostro sistema. «In Italia, negli ultimi quattro anni, la quota di fondi Esg destinati al retail è passata dal 2,4% al 7% —spiega Sebastiano Mazzoni Perelli, managing director a capo dell’area wealth & asset management di Prometeia —. Parliamo di circa 300 prodotti, di cui 90 acquisiti nell’ultimo anno, per un totale di 41 miliardi di asset». E nel 2020 la raccolta netta per i fondi con la targa Esg è stata positiva per 14 miliardi, mentre per i prodotti tradizionali il bilancio dell’anno pandemico è stato negativo in modo quasi speculare.
Numeri che disegnano una tendenza in forte crescita ben nota a chi lavora nell’industria del risparmio, dove il mercato nazionale e quello globale sono legati senza soluzione di continuità. Non a caso Prometeia, per misurare il polso Esg in casa nostra senza sfuggire ad un confronto internazionale, ha coinvolto 27 asset manager che gestiscono in totale quasi 18 mila miliardi e che si caratterizzano per essere attivi nel Vecchio Continente. Ne è nato uno score che misura le società di gestione con un punteggio da zero a cento su quattro componenti: la quantità di asset Esg e gli sforzi della casa per far crescere una cultura nel campo, la taglia dei team specializzati, la filosofia e il processo di investimento, l’impegno nel promuovere queste tematiche nella stagione delle assemblee e non solo. Aggregati per provenienza geografica , i dati riflettono le tendenze nei vari paesi.
Il risultato? I gestori della Germania sono i primi della classe in tre categorie su quattro. Seguiti da francesi, olandesi e svizzeri. E l’Italia? Rimane sotto la media tre volte su quattro insieme ai britannici. Ma fa sempre meglio degli americani, ultimi in classifica. E batte anche svizzeri e olandesi, a pari merito con gli inglesi, nella categoria dell’impegno green come azionisti di minoranza con 70 punti su 100 (media 68).
«Questo punteggio Esg, basato sulle interviste fatte alle diverse case di investimento e che presenteremo nelle prossime settimane — spiega Mazzoni Perelli — rivela che per ora circa la metà degli asset manager coinvolti è debitamente strutturata per offrire ai risparmiatori un’esperienza di investimento davvero sostenibile».
E qui entra in gioco la prova del nove dalla parte delle famiglie, che Prometeia ed Ipsos sondano ciclicamente con lo studio Wealth Insight. In particolare, il sotto campione di possessori di prodotti di investimento/accumulo interpellato tra gennaio e febbraio (780 persone) ha rivelato di non conoscere le tematiche Esg nel campo della finanza personale nel 70% dei casi. Poi c’è un 18% che sa ma non è interessato ad investire con un indirizzo simile, mentre il 6% impiegherebbe almeno il 10% in fondi o altro con un scopo ambientale/sociale e un ultimo 6% anche più del 10% dei prossimi investimenti. Il 31% dei potenziali investitori animati da propositi green vorrebbe però che l’intermediario di riferimento selezionasse i prodotti più coerenti con il suo profilo e il 25% desidererebbe un’illustrazione delle caratteristiche.
«C’è una chiara richiesta di capire meglio gli effetti di questo tipo di investimento — spiega Mazzoni Perelli —. Quantificando gli impatti materiali che sono in grado di generare e le loro finalità senza utilizzare eccessivi tecnicismi. Le tematiche legate al clima sono quelle più sentite». Ma chi ha un ruolo nell’orientare le scelte dei risparmiatori, conclude Perelli, deve anche spiegare ai propri clienti che investire Esg è anche un modo per coprirsi dai rischi: un investimento non Esg può portare con sé, in futuro, svantaggi che al momento non vengono ancora percepiti correttamente. Perché le normative cambieranno, privilegiando le aziende in grado di gestire il business in modo sostenibile.
Fonte: Il Corriere della Sera