Prima che la morsa di un sempre più probabile lockdown paralizzi di nuovo la finanza italiana, il Tesoro prova a stringere sulla privatizzazione di Mps. I rumor di ieri sull’evoluzione della trattativa tra via XX Settembre e Unicredit e su un piano da sei mila esuberi confermano la volontà dell’azionista pubblico di rispettare le tempistiche concordate con la Ue. Se la banca guidata da Jean Pierre Mustier accettasse davvero di subentrare, Siena tornerebbe privata entro la fine dell’anno prossimo e forse anche prima. Un messaggio chiaro indirizzato non solo al mercato e ai regolatori, ma anche al vertice della banca senese in cui da qualche tempo non ci sarebbe uniformità di vedute sugli indirizzi strategici. Ma andrà davvero così?
Il dossier Mps è parcheggiato da giugno sulla scrivania di Mustier insieme almeno ad altri due: quello di Banco Bpm, l’altro istituto italiano al centro del risiko, e quello di Société générale, la banca francese che Unicredit corteggia da qualche anno e alla quale ancora nei mesi scorsi ha rivolto qualche avance. In generale piazza Gae Aulenti appare timida nell’approcciare un’operazione di m&a su suolo italiano. Non solo perché la strategia di Mustier è stata finora fortemente orientata verso la costruzione di un gruppo paneuropeo attraverso un merger cross-border, ma anche perché oggi ci sono almeno quattro ostacoli da smarcare prima di arrivare a un matrimonio.
Qualcuno ha letto nella recente cooptazione dell’ex ministro dell’economia Pier Carlo Padoan nel board un segnale propiziatorio per un deal con Siena. Era stato proprio Padoan nel 2017 a curare personalmente le trattative con Bruxelles e con Francoforte per nazionalizzare il Monte con una ricapitalizzazione precauzionale. La sua nomina però non è ancora certa visto che solo la prossima settimana il comitato per le incompatibilità della giunta per le elezioni della Camera inizierà a esaminare la materia.
Altra discriminante della partita saranno le condizioni che il Tesoro metterà sul tavolo. Mustier ha fatto capire che accetterà solo un deal molto simile a quello fatto da Intesa Sanpaolo con le due banche venete e che quindi la generosa dote dello Stato sarà essenziale. È realistico pensare che il ceo di Unicredit abbia in mente una cifra superiore ai 5 miliardi (almeno la metà solo per coprire il contenzioso legale) che andrebbero ad aggiungersi ai 6,9 miliardi investiti nel salvataggio del 2017. Il governo sarà disposto a saldare un conto così salato, con una forza politica notoriamente non tenera con il sistema bancario come il Movimento Cinque Stelle nella maggioranza?
Oltre alla dote ci sarebbe poi un secondo aspetto sul tavolo della trattativa. In cambio dell’intervento su Siena il vertice di Unicredit potrebbe ottenere un sostanziale via libera politico alla scissione degli stranieri da quelli italiani del gruppo (e forse anche del Cib) e allo loro successiva quotazione all’estero, probabilmente a Francoforte. Anche questo dossier giace da tempo sulla scrivania di Mustier e sarebbe già stato discusso in consiglio dove avrebbe suscitato non poche perplessità. Non solo perché oggi la posizione patrimoniale è solida e anzi in Germania si pone perfino il problema di un eccesso di capitale, ma soprattutto perché a molti il progetto sembra propedeutico a una cessione delle attività estere, proprio in un momento in cui Unicredit quota appena il 30% dei mezzi propri.
Ma la principale incognita sul deal non è di natura finanziaria o strategica. Riguarda piuttosto le scelte personali dello stesso Mustier. Il ceo Unicredit arriverà in primavera alla scadenza del suo secondo mandato e le sue intenzioni sul futuro non sono ancora chiare. Si mormora che in questi ultimi mesi il banchiere sia molto attento a quanto accade nella finanza nordeuropea, principalmente parigina, forse per sondare nuove opportunità. Gossip a parte, difficilmente il ceo accetterà un nuovo mandato senza la piena condivisione della strategia e il controllo delle leve di comando. Sarà quindi Mustier a trarre in salvo il Monte o un suo eventuale successore? Si vedrà. Di certo molti pezzi del puzzle sono ancora fuori posto ma, salvo ripensamenti, l’imput di Roma è deciso: il matrimonio s’ha da fare.
Autore: Luca Gualtieri
Fonte: Milano Finanza
Prima che la morsa di un sempre più probabile lockdown paralizzi di nuovo la finanza italiana, il Tesoro prova a stringere sulla privatizzazione di Mps. I rumor di ieri sull’evoluzione della trattativa tra via XX Settembre e Unicredit e su un piano da sei mila esuberi confermano la volontà dell’azionista pubblico di rispettare le tempistiche concordate con la Ue. Se la banca guidata da Jean Pierre Mustier accettasse davvero di subentrare, Siena tornerebbe privata entro la fine dell’anno prossimo e forse anche prima. Un messaggio chiaro indirizzato non solo al mercato e ai regolatori, ma anche al vertice della banca senese in cui da qualche tempo non ci sarebbe uniformità di vedute sugli indirizzi strategici. Ma andrà davvero così?
Il dossier Mps è parcheggiato da giugno sulla scrivania di Mustier insieme almeno ad altri due: quello di Banco Bpm, l’altro istituto italiano al centro del risiko, e quello di Société générale, la banca francese che Unicredit corteggia da qualche anno e alla quale ancora nei mesi scorsi ha rivolto qualche avance. In generale piazza Gae Aulenti appare timida nell’approcciare un’operazione di m&a su suolo italiano. Non solo perché la strategia di Mustier è stata finora fortemente orientata verso la costruzione di un gruppo paneuropeo attraverso un merger cross-border, ma anche perché oggi ci sono almeno quattro ostacoli da smarcare prima di arrivare a un matrimonio.
Qualcuno ha letto nella recente cooptazione dell’ex ministro dell’economia Pier Carlo Padoan nel board un segnale propiziatorio per un deal con Siena. Era stato proprio Padoan nel 2017 a curare personalmente le trattative con Bruxelles e con Francoforte per nazionalizzare il Monte con una ricapitalizzazione precauzionale. La sua nomina però non è ancora certa visto che solo la prossima settimana il comitato per le incompatibilità della giunta per le elezioni della Camera inizierà a esaminare la materia.
Altra discriminante della partita saranno le condizioni che il Tesoro metterà sul tavolo. Mustier ha fatto capire che accetterà solo un deal molto simile a quello fatto da Intesa Sanpaolo con le due banche venete e che quindi la generosa dote dello Stato sarà essenziale. È realistico pensare che il ceo di Unicredit abbia in mente una cifra superiore ai 5 miliardi (almeno la metà solo per coprire il contenzioso legale) che andrebbero ad aggiungersi ai 6,9 miliardi investiti nel salvataggio del 2017. Il governo sarà disposto a saldare un conto così salato, con una forza politica notoriamente non tenera con il sistema bancario come il Movimento Cinque Stelle nella maggioranza?
Oltre alla dote ci sarebbe poi un secondo aspetto sul tavolo della trattativa. In cambio dell’intervento su Siena il vertice di Unicredit potrebbe ottenere un sostanziale via libera politico alla scissione degli stranieri da quelli italiani del gruppo (e forse anche del Cib) e allo loro successiva quotazione all’estero, probabilmente a Francoforte. Anche questo dossier giace da tempo sulla scrivania di Mustier e sarebbe già stato discusso in consiglio dove avrebbe suscitato non poche perplessità. Non solo perché oggi la posizione patrimoniale è solida e anzi in Germania si pone perfino il problema di un eccesso di capitale, ma soprattutto perché a molti il progetto sembra propedeutico a una cessione delle attività estere, proprio in un momento in cui Unicredit quota appena il 30% dei mezzi propri.
Ma la principale incognita sul deal non è di natura finanziaria o strategica. Riguarda piuttosto le scelte personali dello stesso Mustier. Il ceo Unicredit arriverà in primavera alla scadenza del suo secondo mandato e le sue intenzioni sul futuro non sono ancora chiare. Si mormora che in questi ultimi mesi il banchiere sia molto attento a quanto accade nella finanza nordeuropea, principalmente parigina, forse per sondare nuove opportunità. Gossip a parte, difficilmente il ceo accetterà un nuovo mandato senza la piena condivisione della strategia e il controllo delle leve di comando. Sarà quindi Mustier a trarre in salvo il Monte o un suo eventuale successore? Si vedrà. Di certo molti pezzi del puzzle sono ancora fuori posto ma, salvo ripensamenti, l’imput di Roma è deciso: il matrimonio s’ha da fare.
Autore: Luca Gualtieri
Fonte: Milano Finanza