Dopo mesi di burrasca finanziaria proseguono i segnali di progressiva normalizzazione. Pochi giorni fa, quattro delle principali banche centrali mondiali hanno ridotto l’offerta di liquidità in dollari Usa tramite linee swap di emergenza con la Federal Reserve (Fed). La Banca centrale europea (Bce), la Banca d’Inghilterra (Boe), la Banca del Giappone (Boj) e la Banca nazionale svizzera (Snb) – che insieme a Fed e Bank of Canada compongono il cosiddetto network C6 – effettueranno ora operazioni di finanziamento a breve termine in dollari solo una volta alla settimana, invece che tre volte (fino a giugno la periodicità era giornaliera), per via del miglioramento delle condizioni globali e della scarsa domanda. A settembre la Bce non ha avuto offerenti per 6 operazioni su 9 di mentre la Boe non ha registrato alcun prestito da quasi un mese.
Insomma, assieme alla ripresa dell’economia globale prosegue il lento switch-off dell’arsenale di provvedimenti di emergenza che le banche centrali del network C6 avevano imbastito in tutta fretta intorno alla metà di marzo 2020, nel periodo di massima crisi sanitaria in Europa e negli Usa. In quelle terribili settimane, a causa dell’elevatissima incertezza circa il primo impatto della pandemia sull’economia globale, l’avversione al rischio degli investitori e degli algoritmi automatici aveva raggiunto vette record. Una richiesta senza precedenti di liquidità in dollari aveva travolto i mercati valutari, abitualmente attrezzati per gestire una domanda 100 volte inferiore.
In condizioni normali i mercati degli swap valutari consentono agli operatori di accedere a depositi in dollari a un costo in linea con il differenziale di tasso di interesse tra due aree valutarie. Per esempio, se il tasso di riferimento degli Usa oggi è pari all’0,6% e quello europeo è -0,5%, il costo teorico di uno swap euro/dollaro per una società europea dovrebbe essere largo circa dell’1,1% (dato che paga lo 0,6% di interesse sul dollaro, più lo 0,5% di interesse sull’euro). Se però la domanda di dollari si impenna in maniera abnorme in breve tempo, la controparte che offre il biglietto verde inizierà a quotare un costo aggiuntivo (la base) sempre più alto. Se si osserva l’andamento delle basi per gli swap euro/dollaro e yen/dollaro, a metà marzo compare esattamente questo fenomeno: l’offerta di dollari diventa estremamente scarsa e costosa.
Intorno al 20 marzo il costo da sopportare per accedere a un deposito in dollari con scadenza a 3 mesi ha raggiunto gli 85 punti base in più rispetto al tasso di riferimento Usa per le imprese dell’area euro e addirittura sfiorato i 150 per quelle giapponesi. Situazioni ancora più estreme hanno riguardato paesi che non avevano in quel momento nessun supporto garantito da parte della Fed, come la Corea del Sud o la Cina. Questa situazione, già verificatasi dopo il fallimento della banca d’investimento Lehman Brothers nel 2008 e in misura minore dopo l’attentato terroristico alle Torri Gemelle nel 2001, è estremamente pericolosa per il sistema finanziario. Infatti, per soddisfare l’improvvisa richiesta di dollari banche ed imprese potrebbero essere costrette a liquidare a prezzi di saldo le proprie attività in valuta, peggiorando in maniera esponenziale il crollo dei prezzi sui mercati finanziari globali.
La rete di protezione globale della Fed
Per prevenire queste conseguenze disastrose, dal 2008 in poi si è sviluppata una rete di oltre 120 interconnessioni tra banche centrali che permettono l’accesso a risorse in valuta estera direttamente dai Paesi «produttori». In pratica, sussiste nell’operatività una sorta di monopolio della Fed per via del ruolo di valuta di riserva che il dollaro mantiene da 75 anni almeno.
Funziona così: la Fed presta dollari ad un’altra banca centrale ricevendo un corrispondente quantitativo di valuta emessa da quest’ultima come garanzia e una remunerazione pari al tasso di riferimento in dollari maggiorato di uno spread. Successivamente la banca centrale che ha preso a prestito i dollari li offre alle banche commerciali nazionali attraverso operazioni repo (pronti-contro-termine).
Le economie asiatiche avevano fatto da apripista, costruendo una rete regionale di linee di liquidità di emergenza (l’iniziativa Chiang Mai) dopo la devastante crisi di bilancia dei pagamenti del 1997-1998. I Paesi occidentali invece si sono mossi in questa direzione – anch’essi obtorto collo – nell’immediato periodo post-Lehman, quando la Fed ha dovuto accendere una linea swap per oltre 600 miliardi di dollari, di cui 300 erogati proprio alla Bce in risposta alla fuga in massa degli investitori verso l’ancora di salvezza del dollaro.
Nel 2010 è stato poi istituito il network C6 come rete temporanea di linee swap in valuta che nel 2013 è diventata permanente. Nasce così un cartello stabile delle principali banche centrali per garantire liquidità in dollari al di fuori del mercato Usa.
Stime della Boe del 2019 quantificavano la liquidità massima erogabile dal totale delle linee swap in circa 2.500 miliardi di dollari. Il 15 marzo 2020 a fronte di una situazione in rapidissimo deterioramento sui mercati finanziari la Fed si muove. Con una misura a sorpresa abbassa il costo di accesso alle linee di liquidità di 25 punti base (-50%) ed allunga la scadenza dei prestiti da una settimana fino a 3 mesi. I prestiti con maturity settimanale vengono inoltre offerti su base giornaliera. Il 19 marzo l’accesso alla liquidità viene esteso a 9 banche centrali mentre il 31 si aggiunge un’ulteriore linea temporanea (Temporary Foreign and International Monetary Authorities Facility – Fima) che consente teoricamente prestiti in dollari in cambio di Treasuries Usa a garanzia a qualunque banca centrale accreditata fuori dal circuito C6.
L’utilizzo di questi strumenti da parte delle banche centrali estere è stato immediato e massiccio. Già il 19 marzo i membri del C6 avevano attinto 162 miliardi dalle linee swap. A fine mese questo dato era più che raddoppiato a 357 miliardi, con il 47% di risorse impegnate dalla Boj e circa il 36% dalla Bce. L’attività di prestito è rimasta intensa fino alla metà di aprile, per poi scemare gradualmente nei mesi successivi. La Boj è rimasta l’autorità monetaria più attiva con una serie di interventi significativi anche durante il mese di maggio, prevalentemente volti a estendere prestiti a breve termine già accesi.
Se si osservano i flussi cumulati, è possibile notare un picco di utilizzo della liquidità a fine maggio 2020 a 449 miliardi di dollari, circa il 17% della liquidità erogabile teorica. Negli ultimi mesi, i prestiti sono stati progressivamente restituiti secondo il profilo delle maturities; la Boj è rimasta la banca centrale più attiva anche in questa fase terminale con circa 56 miliardi ancora impegnati ad inizio settembre 2020.
I risultati di questa enorme onda di liquidità non si sono fatti attendere (si veda il primo grafico). Già il 24 marzo la base euro/dollaro era rientrata intorno allo 0, mentre quella yen/dollaro si è annullata il 31 marzo, in coerenza con il ritardo delle operazioni della Boj di circa una settimana. Nel mese successivo è accaduto qualcosa di singolare sui mercati valutari: il premio che le banche commerciali avevano dovuto pagare per accedere ai depositi in dollari si è trasformato in uno sconto grazie all’improvviso eccesso di offerta. In altri termini, dopo l’intervento delle banche centrali, prendere a prestito dollari è diventato più economico rispetto alla norma.
Paradossalmente, per una banca Usa in quel momento storico era più conveniente prendere a prestito euro sui mercati europei e poi accedere ad uno swap in dollari che chiedere un prestito direttamente sul mercato interbancario Usa. In poche settimane questa forma di arbitraggio ha rapidamente riportato la situazione alla normalità, innalzando gradualmente il costo di finanziamento in euro per le banche Usa.
Dai primi giorni di maggio 2020 le basi sono tornate sostanzialmente inalterate ai livelli pre-pandemia.In definitiva, in questa circostanza le banche centrali hanno mostrato un controllo saldo sui mercati valutari a fronte di uno shock inatteso e severo. Questo ottimo risultato è frutto anche di un lungimirante lavoro preparatorio durato anni, in cui è stata intessuta la rete di protezione tra banche centrali. Fortunatamente durante la crisi pandemica le banche hanno dimostrato di essere parte della soluzione e non del problema, come nella crisi finanziaria del 2008-2009. Questo ci lascia ben sperare per una ripresa economica più rapida ed incisiva del previsto.
Autore: Marcello Minenna
Fonte: Il Sole 24 Ore
Dopo mesi di burrasca finanziaria proseguono i segnali di progressiva normalizzazione. Pochi giorni fa, quattro delle principali banche centrali mondiali hanno ridotto l’offerta di liquidità in dollari Usa tramite linee swap di emergenza con la Federal Reserve (Fed). La Banca centrale europea (Bce), la Banca d’Inghilterra (Boe), la Banca del Giappone (Boj) e la Banca nazionale svizzera (Snb) – che insieme a Fed e Bank of Canada compongono il cosiddetto network C6 – effettueranno ora operazioni di finanziamento a breve termine in dollari solo una volta alla settimana, invece che tre volte (fino a giugno la periodicità era giornaliera), per via del miglioramento delle condizioni globali e della scarsa domanda. A settembre la Bce non ha avuto offerenti per 6 operazioni su 9 di mentre la Boe non ha registrato alcun prestito da quasi un mese.
Insomma, assieme alla ripresa dell’economia globale prosegue il lento switch-off dell’arsenale di provvedimenti di emergenza che le banche centrali del network C6 avevano imbastito in tutta fretta intorno alla metà di marzo 2020, nel periodo di massima crisi sanitaria in Europa e negli Usa. In quelle terribili settimane, a causa dell’elevatissima incertezza circa il primo impatto della pandemia sull’economia globale, l’avversione al rischio degli investitori e degli algoritmi automatici aveva raggiunto vette record. Una richiesta senza precedenti di liquidità in dollari aveva travolto i mercati valutari, abitualmente attrezzati per gestire una domanda 100 volte inferiore.
In condizioni normali i mercati degli swap valutari consentono agli operatori di accedere a depositi in dollari a un costo in linea con il differenziale di tasso di interesse tra due aree valutarie. Per esempio, se il tasso di riferimento degli Usa oggi è pari all’0,6% e quello europeo è -0,5%, il costo teorico di uno swap euro/dollaro per una società europea dovrebbe essere largo circa dell’1,1% (dato che paga lo 0,6% di interesse sul dollaro, più lo 0,5% di interesse sull’euro). Se però la domanda di dollari si impenna in maniera abnorme in breve tempo, la controparte che offre il biglietto verde inizierà a quotare un costo aggiuntivo (la base) sempre più alto. Se si osserva l’andamento delle basi per gli swap euro/dollaro e yen/dollaro, a metà marzo compare esattamente questo fenomeno: l’offerta di dollari diventa estremamente scarsa e costosa.
Intorno al 20 marzo il costo da sopportare per accedere a un deposito in dollari con scadenza a 3 mesi ha raggiunto gli 85 punti base in più rispetto al tasso di riferimento Usa per le imprese dell’area euro e addirittura sfiorato i 150 per quelle giapponesi. Situazioni ancora più estreme hanno riguardato paesi che non avevano in quel momento nessun supporto garantito da parte della Fed, come la Corea del Sud o la Cina. Questa situazione, già verificatasi dopo il fallimento della banca d’investimento Lehman Brothers nel 2008 e in misura minore dopo l’attentato terroristico alle Torri Gemelle nel 2001, è estremamente pericolosa per il sistema finanziario. Infatti, per soddisfare l’improvvisa richiesta di dollari banche ed imprese potrebbero essere costrette a liquidare a prezzi di saldo le proprie attività in valuta, peggiorando in maniera esponenziale il crollo dei prezzi sui mercati finanziari globali.
La rete di protezione globale della Fed
Per prevenire queste conseguenze disastrose, dal 2008 in poi si è sviluppata una rete di oltre 120 interconnessioni tra banche centrali che permettono l’accesso a risorse in valuta estera direttamente dai Paesi «produttori». In pratica, sussiste nell’operatività una sorta di monopolio della Fed per via del ruolo di valuta di riserva che il dollaro mantiene da 75 anni almeno.
Funziona così: la Fed presta dollari ad un’altra banca centrale ricevendo un corrispondente quantitativo di valuta emessa da quest’ultima come garanzia e una remunerazione pari al tasso di riferimento in dollari maggiorato di uno spread. Successivamente la banca centrale che ha preso a prestito i dollari li offre alle banche commerciali nazionali attraverso operazioni repo (pronti-contro-termine).
Le economie asiatiche avevano fatto da apripista, costruendo una rete regionale di linee di liquidità di emergenza (l’iniziativa Chiang Mai) dopo la devastante crisi di bilancia dei pagamenti del 1997-1998. I Paesi occidentali invece si sono mossi in questa direzione – anch’essi obtorto collo – nell’immediato periodo post-Lehman, quando la Fed ha dovuto accendere una linea swap per oltre 600 miliardi di dollari, di cui 300 erogati proprio alla Bce in risposta alla fuga in massa degli investitori verso l’ancora di salvezza del dollaro.
Nel 2010 è stato poi istituito il network C6 come rete temporanea di linee swap in valuta che nel 2013 è diventata permanente. Nasce così un cartello stabile delle principali banche centrali per garantire liquidità in dollari al di fuori del mercato Usa.
Stime della Boe del 2019 quantificavano la liquidità massima erogabile dal totale delle linee swap in circa 2.500 miliardi di dollari. Il 15 marzo 2020 a fronte di una situazione in rapidissimo deterioramento sui mercati finanziari la Fed si muove. Con una misura a sorpresa abbassa il costo di accesso alle linee di liquidità di 25 punti base (-50%) ed allunga la scadenza dei prestiti da una settimana fino a 3 mesi. I prestiti con maturity settimanale vengono inoltre offerti su base giornaliera. Il 19 marzo l’accesso alla liquidità viene esteso a 9 banche centrali mentre il 31 si aggiunge un’ulteriore linea temporanea (Temporary Foreign and International Monetary Authorities Facility – Fima) che consente teoricamente prestiti in dollari in cambio di Treasuries Usa a garanzia a qualunque banca centrale accreditata fuori dal circuito C6.
L’utilizzo di questi strumenti da parte delle banche centrali estere è stato immediato e massiccio. Già il 19 marzo i membri del C6 avevano attinto 162 miliardi dalle linee swap. A fine mese questo dato era più che raddoppiato a 357 miliardi, con il 47% di risorse impegnate dalla Boj e circa il 36% dalla Bce. L’attività di prestito è rimasta intensa fino alla metà di aprile, per poi scemare gradualmente nei mesi successivi. La Boj è rimasta l’autorità monetaria più attiva con una serie di interventi significativi anche durante il mese di maggio, prevalentemente volti a estendere prestiti a breve termine già accesi.
Se si osservano i flussi cumulati, è possibile notare un picco di utilizzo della liquidità a fine maggio 2020 a 449 miliardi di dollari, circa il 17% della liquidità erogabile teorica. Negli ultimi mesi, i prestiti sono stati progressivamente restituiti secondo il profilo delle maturities; la Boj è rimasta la banca centrale più attiva anche in questa fase terminale con circa 56 miliardi ancora impegnati ad inizio settembre 2020.
I risultati di questa enorme onda di liquidità non si sono fatti attendere (si veda il primo grafico). Già il 24 marzo la base euro/dollaro era rientrata intorno allo 0, mentre quella yen/dollaro si è annullata il 31 marzo, in coerenza con il ritardo delle operazioni della Boj di circa una settimana. Nel mese successivo è accaduto qualcosa di singolare sui mercati valutari: il premio che le banche commerciali avevano dovuto pagare per accedere ai depositi in dollari si è trasformato in uno sconto grazie all’improvviso eccesso di offerta. In altri termini, dopo l’intervento delle banche centrali, prendere a prestito dollari è diventato più economico rispetto alla norma.
Paradossalmente, per una banca Usa in quel momento storico era più conveniente prendere a prestito euro sui mercati europei e poi accedere ad uno swap in dollari che chiedere un prestito direttamente sul mercato interbancario Usa. In poche settimane questa forma di arbitraggio ha rapidamente riportato la situazione alla normalità, innalzando gradualmente il costo di finanziamento in euro per le banche Usa.
Dai primi giorni di maggio 2020 le basi sono tornate sostanzialmente inalterate ai livelli pre-pandemia.In definitiva, in questa circostanza le banche centrali hanno mostrato un controllo saldo sui mercati valutari a fronte di uno shock inatteso e severo. Questo ottimo risultato è frutto anche di un lungimirante lavoro preparatorio durato anni, in cui è stata intessuta la rete di protezione tra banche centrali. Fortunatamente durante la crisi pandemica le banche hanno dimostrato di essere parte della soluzione e non del problema, come nella crisi finanziaria del 2008-2009. Questo ci lascia ben sperare per una ripresa economica più rapida ed incisiva del previsto.
Autore: Marcello Minenna
Fonte: Il Sole 24 Ore