Sono numeri impressionanti, benché ancora preliminari, quelli che la pandemia rischia di portare con sè. A cercare di fare una valutazione sugli effetti del lockdown è Pwc, società di consulenza che nel suo consueto rapporto annuale sui prestiti problematici rielabora le diverse analisi pubblicate fino ad oggi da istituzioni come Banca d’Italia e dai diversi operatori di mercato, dai servicer alle case di analisi.
Se il futuro è dai confini incerti, lo scenario di partenza è chiaro. Perchéproprio in questi ultimi trimestri il comparto bancario stava iniziando a vedere i frutti del lungo lavoro di pulizia avviato nel 2015, a valle del crack Lehman (2007-2008) e della crisi del debito sovrano (2011-2013). Tra il 2015 e il 2019, il mercato italiano dei non performing ha visto transazioni per 230 miliardi: dai 341 miliardi del 2015, lo stock di Npe a fine 2019 è sceso a 135 miliardi, meno della metà. Un balzo in avanti riconosciuto dalla stessa Bce (si veda anche l’intervista ad Andrea Enria, alle pagine 2 3), Banca d’Italia ed Eba, e che riportava il settore italiano su livelli di sostanziale normalità nel quadro europeo, seppur con le dovuto eccezioni tra le diverse banche italiane.
Ora tuttavia le cose rischiano di peggiorare nuovamente. L’economia italiana nel 2020 potrebbe registrare una contrazione pari al 9,5%, secondo stime Ue, calo a cui potrebbe seguire un rimbalzo del 6,5% nel 2021. Secondo il report Pwc, nel giro di un anno e mezzo è da mettere in conto un pesante incremento del tasso di deterioramento, ovvero della percentuale di ingresso dei crediti da bonis a deteriorati. Nel migliore dei casi, Pwc stima un incremento dei flussi netti nei prossimi 18 mesi attorno ai 60 miliardi. Nello scenario peggiore, invece, la stima è di 90-100 miliardi di nuovi Npe, con un tasso di decadimento che si profila superiore a quello registrato nel 2013. Numeri che sono ancora provvisori e che non tengono conto delle numerose misure governative messe in atto – come le moratorie e le garanzie – proprio con lo scoppio della pandemia.
Il problema è che la maggioranza dei prestiti destinati a finire in condizione di criticità riguarderà le “inadempienze probabili”, i cosiddetti “unlikely to pay” (Utp), aziende che fatturano e pagano stipendi come qualsiasi azienda sana, e che però hanno debiti pregressi da saldare. Si tratta di un segmento di Npe che oggi vale circa 60 miliardi, di cui l’82% è concentrato nelle prime 10 banche, e che nonostante cessioni per circa 10 miliardi negli ultimi anni, diventerà «l’asset class più colpita dalla pandemia: stimiamo ci siano diverse migliaia tra piccole/medie imprese e ditte familiari da supportare, con oltre 750mila dipendenti coinvolti», spiega Pier Paolo Masenza, Financial Services Leader di PwC.
Di fronte a questa valanga di prestiti problematici in arrivo, ci sarà realisticamente da gestire un’emergenza economico-sociale e una finanziaria per le banche. Su quest’ultimo fronte, va detto, l’ammorbidimento regolatorio da parte di Bruxelles e Francoforte appare decisivo. Gli istituti stanno accantonando risorse in vista delle svalutazioni che si renderanno necessarie, come si è visto con le trimestrali del primo trimestre. D’altra parte la corsa allo smaltimento, che ha visto solo nel 2019 cessioni per circa 35 miliardi, potrebbe continuare nel prossimo biennio, anche se molto dipenderà dall’appetito degli investitori, dall’andamento dei prezzi, dall’efficacia delle misure governative e dalle strategie di recupero interno delle banche. Nel complesso per il 2020 gli analisti di PwC si attendono cessioni per 30-35 miliardi di Npe, in linea con il 2019.
Il problema rimane sotto il profilo economico e sociale. Di qua l’importanza di trovare soluzioni ad hoc, magari con «il varo di una soluzione di sistema che permetta di dare nuova finanza alle imprese meritevoli e nello stesso tempo dia supporto alle banche – aggiunge Masenza – o con l’emissione di un garanzia come quella sui crediti in bonis o come uno strumento come la Gacs». Di certo, conclude Gabriele Guggiola, Regulatory Deals Leader di PwC, «le banche dovranno essere pronte a gestire meglio questo fenomeno per contribuire al sostegno delle imprese meritevoli».
Fonte: Il Sole 24 Ore
Sono numeri impressionanti, benché ancora preliminari, quelli che la pandemia rischia di portare con sè. A cercare di fare una valutazione sugli effetti del lockdown è Pwc, società di consulenza che nel suo consueto rapporto annuale sui prestiti problematici rielabora le diverse analisi pubblicate fino ad oggi da istituzioni come Banca d’Italia e dai diversi operatori di mercato, dai servicer alle case di analisi.
Se il futuro è dai confini incerti, lo scenario di partenza è chiaro. Perchéproprio in questi ultimi trimestri il comparto bancario stava iniziando a vedere i frutti del lungo lavoro di pulizia avviato nel 2015, a valle del crack Lehman (2007-2008) e della crisi del debito sovrano (2011-2013). Tra il 2015 e il 2019, il mercato italiano dei non performing ha visto transazioni per 230 miliardi: dai 341 miliardi del 2015, lo stock di Npe a fine 2019 è sceso a 135 miliardi, meno della metà. Un balzo in avanti riconosciuto dalla stessa Bce (si veda anche l’intervista ad Andrea Enria, alle pagine 2 3), Banca d’Italia ed Eba, e che riportava il settore italiano su livelli di sostanziale normalità nel quadro europeo, seppur con le dovuto eccezioni tra le diverse banche italiane.
Ora tuttavia le cose rischiano di peggiorare nuovamente. L’economia italiana nel 2020 potrebbe registrare una contrazione pari al 9,5%, secondo stime Ue, calo a cui potrebbe seguire un rimbalzo del 6,5% nel 2021. Secondo il report Pwc, nel giro di un anno e mezzo è da mettere in conto un pesante incremento del tasso di deterioramento, ovvero della percentuale di ingresso dei crediti da bonis a deteriorati. Nel migliore dei casi, Pwc stima un incremento dei flussi netti nei prossimi 18 mesi attorno ai 60 miliardi. Nello scenario peggiore, invece, la stima è di 90-100 miliardi di nuovi Npe, con un tasso di decadimento che si profila superiore a quello registrato nel 2013. Numeri che sono ancora provvisori e che non tengono conto delle numerose misure governative messe in atto – come le moratorie e le garanzie – proprio con lo scoppio della pandemia.
Il problema è che la maggioranza dei prestiti destinati a finire in condizione di criticità riguarderà le “inadempienze probabili”, i cosiddetti “unlikely to pay” (Utp), aziende che fatturano e pagano stipendi come qualsiasi azienda sana, e che però hanno debiti pregressi da saldare. Si tratta di un segmento di Npe che oggi vale circa 60 miliardi, di cui l’82% è concentrato nelle prime 10 banche, e che nonostante cessioni per circa 10 miliardi negli ultimi anni, diventerà «l’asset class più colpita dalla pandemia: stimiamo ci siano diverse migliaia tra piccole/medie imprese e ditte familiari da supportare, con oltre 750mila dipendenti coinvolti», spiega Pier Paolo Masenza, Financial Services Leader di PwC.
Di fronte a questa valanga di prestiti problematici in arrivo, ci sarà realisticamente da gestire un’emergenza economico-sociale e una finanziaria per le banche. Su quest’ultimo fronte, va detto, l’ammorbidimento regolatorio da parte di Bruxelles e Francoforte appare decisivo. Gli istituti stanno accantonando risorse in vista delle svalutazioni che si renderanno necessarie, come si è visto con le trimestrali del primo trimestre. D’altra parte la corsa allo smaltimento, che ha visto solo nel 2019 cessioni per circa 35 miliardi, potrebbe continuare nel prossimo biennio, anche se molto dipenderà dall’appetito degli investitori, dall’andamento dei prezzi, dall’efficacia delle misure governative e dalle strategie di recupero interno delle banche. Nel complesso per il 2020 gli analisti di PwC si attendono cessioni per 30-35 miliardi di Npe, in linea con il 2019.
Il problema rimane sotto il profilo economico e sociale. Di qua l’importanza di trovare soluzioni ad hoc, magari con «il varo di una soluzione di sistema che permetta di dare nuova finanza alle imprese meritevoli e nello stesso tempo dia supporto alle banche – aggiunge Masenza – o con l’emissione di un garanzia come quella sui crediti in bonis o come uno strumento come la Gacs». Di certo, conclude Gabriele Guggiola, Regulatory Deals Leader di PwC, «le banche dovranno essere pronte a gestire meglio questo fenomeno per contribuire al sostegno delle imprese meritevoli».
Fonte: Il Sole 24 Ore