Moltissimi studi recenti mostrano purtroppo come sia ancora forte e marcato il gender gap nel mondo del lavoro e nell’imprenditoria femminile, sebbene le donne non abbiano da invidiare nulla in termini di competenze e titoli rispetto agli uomini, si evidenzia ancora in Europa una differenza nella paga tra uomini e donne pari al 16% in meno per le seconde, e un basso posizionamento al vertice di grandi aziende, le posizioni alte sono solo nell’ 8% dei casi occupata dalle donne. I numeri parlano chiaro e sono stati diffusi meno di una settimana fa dalla Commissione Ue nel corso della presentazione della Strategia per la parità tra donne e uomini in Europa. La stessa Commissione stabilisce una serie di azioni per colmare il gender gap nel corso dei prossimi 5 anni, sebbene spiega il rapporto si siano fatti dei progressi significativi negli ultimi decenni e l’unione sia “leader globale nell’uguaglianza di genere”.
Altrettanto sconfortante è la situazione del genere femminile se si volge lo sguardo verso il mondo delle imprese, lo studio commissionato dall’Ambasciata britannica a Roma guidata da Jill Morris, e realizzato da Roberta Rabellotti dell’Università di Pavia, Paola Subacchi della Queen Mary University di Londra e Holly Lewis-Frayne della E-Economics titolato “Investire sulle donne: di cosa hanno bisogno le imprenditrici in Italia e in Gran Bretagna» evidenzia come ci siano solo 5 donne imprenditrici ogni 10, a differenza di quanto accade in Usa e Canada ove la proporzione sale a 8 su 10.
Inoltre sebbene le condizioni paiano oltremanica più favorevoli all’imprenditoria femminile rispetto all’Italia, in entrambi i Paesi analizzanti ancora vi è molto da fare, e su questo concordano gli studiosi che hanno preso parte al progetto. Inoltre tra i Paesi
europei, in quelli analizzati, vi è anche un problema di accesso al credito, bancario e non.
La dott.ssa Roberta Rabellotti, spiega come ciò dipenda essenzialmente dal fatto che “Le imprese femminili siano percepite come più rischiose rispetto a quelle maschili”. In Italia, aggiunge, corroborando con dati il suo pensiero “gli uomini hanno 2,3 probabilità in più delle donne di ricevere fondi per iniziare una nuova impresa, in Gran Bretagna ne hanno 1,7”.
Purtroppo, spiega, incide ancora moltissimo il fattore culturale che grava pesantemente sulle donne, che fin dall’inizio devono dimostrare le proprie capacità, fornendo dati di performance, mentre questi non sono richiesti agli uomini per i quali spesso basta indicare le potenzialità di crescita dell’impresa per poter ottenere un finanziamento.
“In Gran Bretagna, aggiunge, emerge tristemente dai dati, meno dell’1% del venture capital va ad aziende tutte femminili. E questo perché è un mondo, quello della finanza, prevalentemente maschile: gli investitori tendono a finanziare persone simili a loro”.
Sta comparendo purtroppo un altro problema che tarpa a monte ‘le ali’ delle imprenditrici, fa notare la ricercatrice, le donne sempre più percepiscono ormai questa discriminazione nell’accesso al credito, rientrando nei cosiddetti ‘ debitori scoraggiati’ e talvolta nemmeno più presentano domanda alla banca per ottenere il finanziamento necessario per dare seguito alla propria attività. Quel che non gioca certamente a favore delle donne è il fatto che le imprese in Italia siano micro, fino a 9 dipendenti, per la quasi totalità il 96.6% in settori a bassa produttività e con scarsa prospettiva di crescita. Infatti i dati dello studio evidenziano come ben oltre l’80% delle aziende fornisca servizi
in settori come salute e benessere, si pensi ad attività quali estetista, parrucchiera, lavanderia, che hanno costi di entrata bassi,
Un trend inverso, che salta all’occhio nel rapporto e dunque diviene l’eccezione è nel finanziamento ottenuto attraverso il crowfunding, ove le donne imprenditrici hanno decisamente più successo rispetto ai colleghi uomini.
Dallo studio emerge infatti che, confermando la controtendenza rispetto al classico accesso al credito, “Le campagne condotte da donne hanno il 32% di probabilità in più di quelle condotte dagli uomini di essere finanziate”. Per colmare il gender gap bisogna, quindi, necessariamente superare il problema culturale conclude Rabellotti
Moltissimi studi recenti mostrano purtroppo come sia ancora forte e marcato il gender gap nel mondo del lavoro e nell’imprenditoria femminile, sebbene le donne non abbiano da invidiare nulla in termini di competenze e titoli rispetto agli uomini, si evidenzia ancora in Europa una differenza nella paga tra uomini e donne pari al 16% in meno per le seconde, e un basso posizionamento al vertice di grandi aziende, le posizioni alte sono solo nell’ 8% dei casi occupata dalle donne. I numeri parlano chiaro e sono stati diffusi meno di una settimana fa dalla Commissione Ue nel corso della presentazione della Strategia per la parità tra donne e uomini in Europa. La stessa Commissione stabilisce una serie di azioni per colmare il gender gap nel corso dei prossimi 5 anni, sebbene spiega il rapporto si siano fatti dei progressi significativi negli ultimi decenni e l’unione sia “leader globale nell’uguaglianza di genere”.
Altrettanto sconfortante è la situazione del genere femminile se si volge lo sguardo verso il mondo delle imprese, lo studio commissionato dall’Ambasciata britannica a Roma guidata da Jill Morris, e realizzato da Roberta Rabellotti dell’Università di Pavia, Paola Subacchi della Queen Mary University di Londra e Holly Lewis-Frayne della E-Economics titolato “Investire sulle donne: di cosa hanno bisogno le imprenditrici in Italia e in Gran Bretagna» evidenzia come ci siano solo 5 donne imprenditrici ogni 10, a differenza di quanto accade in Usa e Canada ove la proporzione sale a 8 su 10.
Inoltre sebbene le condizioni paiano oltremanica più favorevoli all’imprenditoria femminile rispetto all’Italia, in entrambi i Paesi analizzanti ancora vi è molto da fare, e su questo concordano gli studiosi che hanno preso parte al progetto. Inoltre tra i Paesi
europei, in quelli analizzati, vi è anche un problema di accesso al credito, bancario e non.
La dott.ssa Roberta Rabellotti, spiega come ciò dipenda essenzialmente dal fatto che “Le imprese femminili siano percepite come più rischiose rispetto a quelle maschili”. In Italia, aggiunge, corroborando con dati il suo pensiero “gli uomini hanno 2,3 probabilità in più delle donne di ricevere fondi per iniziare una nuova impresa, in Gran Bretagna ne hanno 1,7”.
Purtroppo, spiega, incide ancora moltissimo il fattore culturale che grava pesantemente sulle donne, che fin dall’inizio devono dimostrare le proprie capacità, fornendo dati di performance, mentre questi non sono richiesti agli uomini per i quali spesso basta indicare le potenzialità di crescita dell’impresa per poter ottenere un finanziamento.
“In Gran Bretagna, aggiunge, emerge tristemente dai dati, meno dell’1% del venture capital va ad aziende tutte femminili. E questo perché è un mondo, quello della finanza, prevalentemente maschile: gli investitori tendono a finanziare persone simili a loro”.
Sta comparendo purtroppo un altro problema che tarpa a monte ‘le ali’ delle imprenditrici, fa notare la ricercatrice, le donne sempre più percepiscono ormai questa discriminazione nell’accesso al credito, rientrando nei cosiddetti ‘ debitori scoraggiati’ e talvolta nemmeno più presentano domanda alla banca per ottenere il finanziamento necessario per dare seguito alla propria attività. Quel che non gioca certamente a favore delle donne è il fatto che le imprese in Italia siano micro, fino a 9 dipendenti, per la quasi totalità il 96.6% in settori a bassa produttività e con scarsa prospettiva di crescita. Infatti i dati dello studio evidenziano come ben oltre l’80% delle aziende fornisca servizi
in settori come salute e benessere, si pensi ad attività quali estetista, parrucchiera, lavanderia, che hanno costi di entrata bassi,
Un trend inverso, che salta all’occhio nel rapporto e dunque diviene l’eccezione è nel finanziamento ottenuto attraverso il crowfunding, ove le donne imprenditrici hanno decisamente più successo rispetto ai colleghi uomini.
Dallo studio emerge infatti che, confermando la controtendenza rispetto al classico accesso al credito, “Le campagne condotte da donne hanno il 32% di probabilità in più di quelle condotte dagli uomini di essere finanziate”. Per colmare il gender gap bisogna, quindi, necessariamente superare il problema culturale conclude Rabellotti