La blockchain è una tecnologia dirompente, ben lontana dalla maturità, ma che nel 2020 potrebbe avere la svolta nel settore enterprise. Il tutto puntando a un valore di mercato di 60 miliardi di dollari a livello globale e focus ben oltre le valute digitali.
Le potenzialità della blockchain, unitamente all’invito ad andare oltre l’identificazione di questa tecnologia con le sole valute digitali, sono al centro dello studio “The next block in the chain – l’evoluzione oltre le criptovalute”, realizzato da Bip, multinazionale tricolore della consulenza: fondata in Italia nel 2003, oggi impiega oltre 2.700 persone a livello globale e ha chiuso il 2019 con 237 milioni di fatturato. Una multinazionale con programmi di crescita, con acquisizioni nel mirino in Francia e Uk. Nei giorni scorsi Bip ha non a caso reso noto che un pool di banche composto da Bnp Paribas, Crédit Agricole e Ubi Banca ha rifinanziato «l’intero debito esistente, per complessivi 65 milioni e concesso ulteriori 25 milioni, destinati a finanziare future acquisizioni previste dal piano strategico».
Stando ai numeri dell’indagine – condotta in Canada, Cina, Francia, Germania, Messico, Regno Unito e Usa – al momento il settore dei servizi finanziari (21% dei progetti), quello dei media, Tlc e delle tecnologie digitali (16%) e quello dei prodotti di consumo e manifatturiero (13%) sono i principali in cui la blockchain ha avuto attuazione concreta.
Ma il messaggio dello studio curato da Marco Pesarini, Praveenkumar Radhakrishnan e Giorgio Alessandro Motta poggia sull’idea, come spiega l’ad di Bip Fabio Troiani, che «molte aziende stanno riprendendo in considerazione use case parcheggiati nei cassetti dei loro dipartimenti di innovazione: dal tracciamento del prodotti alimentari di origine italiana, al mercato distribuito dell’energia, dalla gestione dei diritti di autore alla semplificazione del mercato dei titoli azionari, al catasto digitale».
Questo perché, in generale, sebbene il 2019 sia stato caratterizzato da un raffreddamento sulla tecnologia blockchain – con calo delle quotazioni delle criptovalute (-50% dal 2017 per Bitcoin) e anche con qualche segnale di calo dell’uso della tecnologia (-11TWh di minore consumo energetico annuo per mining su Ethereum) – l’interesse da parte delle aziende rimane comunque sempre alto, soprattutto nei settori del agro-alimentare, dell’energia, del lusso, farmaceutico e più in generale nel mondo della supply chain.
Il raffreddamento è molto legato ai problemi tecnologici che affliggono le blockchain pubbliche fino ad ora realizzate. Innanzitutto la lentezza (su Bitcoin la transazione si conferma in 10 minuti), il costo delle transazione e la sua volatilità (il prezzo per scrivere su Ethereum ha subito oscillazioni del 300% in tre mesi 2019) e la mancanza di fiducia nei soggetti che gestiscono la rete (molti “miner” – i “validatori” che permettono l’avanzamento delle catene su cui si basano i database distribuiti, perlopiù computer e grande elaboratori – sono concentrati in Cina).
Il 2020 si apre però sotto luci migliori. «Le problematiche insite nella prima generazione delle blockchain pubbliche – spiega Marco Pesarini Director e Leader della practice Blockchain di Bip, coautore della ricerca – riteniamo possano essere superate dalle evoluzioni tecnologiche che stanno entrando in campo. Il tanto atteso superamento del proof-of-work, che sta diventando realtà sulla rete di Algorand lanciata dal professor Micali, italiano e premio Turing del Mit, che permette di registrare transazioni in 4 secondi a costo quasi nullo e che ora gestisce gli smart-contract essenziali per la adozione commerciale. Penso anche alla oramai famigerata evoluzione di Ethereum verso Capser proof-of-stake che dovrebbe essere alle porte, con la sua prospettiva di migliorare la scalabilità e ampliare il bacino di applicazione degli smart contract più potenti ad oggi sviluppati».
Fonte: Il Sole 24 Ore
La blockchain è una tecnologia dirompente, ben lontana dalla maturità, ma che nel 2020 potrebbe avere la svolta nel settore enterprise. Il tutto puntando a un valore di mercato di 60 miliardi di dollari a livello globale e focus ben oltre le valute digitali.
Le potenzialità della blockchain, unitamente all’invito ad andare oltre l’identificazione di questa tecnologia con le sole valute digitali, sono al centro dello studio “The next block in the chain – l’evoluzione oltre le criptovalute”, realizzato da Bip, multinazionale tricolore della consulenza: fondata in Italia nel 2003, oggi impiega oltre 2.700 persone a livello globale e ha chiuso il 2019 con 237 milioni di fatturato. Una multinazionale con programmi di crescita, con acquisizioni nel mirino in Francia e Uk. Nei giorni scorsi Bip ha non a caso reso noto che un pool di banche composto da Bnp Paribas, Crédit Agricole e Ubi Banca ha rifinanziato «l’intero debito esistente, per complessivi 65 milioni e concesso ulteriori 25 milioni, destinati a finanziare future acquisizioni previste dal piano strategico».
Stando ai numeri dell’indagine – condotta in Canada, Cina, Francia, Germania, Messico, Regno Unito e Usa – al momento il settore dei servizi finanziari (21% dei progetti), quello dei media, Tlc e delle tecnologie digitali (16%) e quello dei prodotti di consumo e manifatturiero (13%) sono i principali in cui la blockchain ha avuto attuazione concreta.
Ma il messaggio dello studio curato da Marco Pesarini, Praveenkumar Radhakrishnan e Giorgio Alessandro Motta poggia sull’idea, come spiega l’ad di Bip Fabio Troiani, che «molte aziende stanno riprendendo in considerazione use case parcheggiati nei cassetti dei loro dipartimenti di innovazione: dal tracciamento del prodotti alimentari di origine italiana, al mercato distribuito dell’energia, dalla gestione dei diritti di autore alla semplificazione del mercato dei titoli azionari, al catasto digitale».
Questo perché, in generale, sebbene il 2019 sia stato caratterizzato da un raffreddamento sulla tecnologia blockchain – con calo delle quotazioni delle criptovalute (-50% dal 2017 per Bitcoin) e anche con qualche segnale di calo dell’uso della tecnologia (-11TWh di minore consumo energetico annuo per mining su Ethereum) – l’interesse da parte delle aziende rimane comunque sempre alto, soprattutto nei settori del agro-alimentare, dell’energia, del lusso, farmaceutico e più in generale nel mondo della supply chain.
Il raffreddamento è molto legato ai problemi tecnologici che affliggono le blockchain pubbliche fino ad ora realizzate. Innanzitutto la lentezza (su Bitcoin la transazione si conferma in 10 minuti), il costo delle transazione e la sua volatilità (il prezzo per scrivere su Ethereum ha subito oscillazioni del 300% in tre mesi 2019) e la mancanza di fiducia nei soggetti che gestiscono la rete (molti “miner” – i “validatori” che permettono l’avanzamento delle catene su cui si basano i database distribuiti, perlopiù computer e grande elaboratori – sono concentrati in Cina).
Il 2020 si apre però sotto luci migliori. «Le problematiche insite nella prima generazione delle blockchain pubbliche – spiega Marco Pesarini Director e Leader della practice Blockchain di Bip, coautore della ricerca – riteniamo possano essere superate dalle evoluzioni tecnologiche che stanno entrando in campo. Il tanto atteso superamento del proof-of-work, che sta diventando realtà sulla rete di Algorand lanciata dal professor Micali, italiano e premio Turing del Mit, che permette di registrare transazioni in 4 secondi a costo quasi nullo e che ora gestisce gli smart-contract essenziali per la adozione commerciale. Penso anche alla oramai famigerata evoluzione di Ethereum verso Capser proof-of-stake che dovrebbe essere alle porte, con la sua prospettiva di migliorare la scalabilità e ampliare il bacino di applicazione degli smart contract più potenti ad oggi sviluppati».
Fonte: Il Sole 24 Ore