La Gig economy è una delle nuove forme di organizzazione dell’economia digitale, in italiano viene tradotta come economia dei lavoretti, quelle mansioni che vengono svolte per arrotondare il proprio stipendio basso, nasce con l’idea di essere una sorta di secondo lavoro, ora in realtà il modello sta evolvendo e anche rapidamente. La gig economy infatti sta prendendo sempre più piede al punto che la stessa Uil ha effettuato uno studio per comprenderne le evoluzioni e i potenziali sviluppi. Per questa ragione sempre più il fenomeno è finito sotto ‘osservazione’ al fine di comprendere come inquadrare aziende e lavoratori che utilizzano tale nuova forma di organizzazione economica.
A spiegare bene cos’é la gig economy ci pensa Claudio Maria Perfetto, Informatico esperto di processi e di organizzazione di Centri di Elaborazione Dati di grandi dimensioni e di elaboratori IBM della classe mainframe, autore di un libro pubblicato da Aracne nel febbraio 2019, dal titolo:
“ L’Economista in Camice’ che ha così sintetizzato il fenomeno: “La gig economy è una forma di lavoro organizzato mediante piattaforme online. Si tratta in sostanza di lavoro on demand, come quello, per esempio, della consegna di cibo a domicilio: basta una motorino, uno smartphone, iscriversi al sito dell’impresa che gestisce il servizio a domicilio e attendere che l’algoritmo dell’applicazione ingaggi il rider (così si chiama il lavoratore che consegna cibo a domicilio). La macchina tiene traccia della velocità di consegna, del rating dei clienti, della disponibilità a lavorare in giorni festivi e di altri parametri che contribuiscono a determinare il “punteggio”, la valutazione sul grado di affidabilità del rider. Se il punteggio si abbassa, il rider viene “sloggato”, gli viene negato l’accesso alla piattaforma, cessa di lavorare. La gig economy ci mostra, a livello micro, il computer nel ruolo di “datore di lavoro”.
Talvolta, dicono gli esperti, si confonde ancora la gig economy con la sharing economy. La seconda, tuttavia, prevede la condivisione di risorse sottoutilizzate. Mentre la gig economy si
impernia su un lavoro vero e proprio, organizzato dalla piattaforma digitale attraverso freelance. La novità sta proprio nell’organizzazione del lavoro, ma non avviene una condivisione di risorse. La gig economy sta divenendo un fenomeno emergente e sempre più italiani si arruolano nei lavori del macrocosmo della gig economy.
Fotografare il fenomeno e definirne i confini non è però così semplice perché le condizioni lavorative sono prevalentemente senza alcun tipo di garanzia ed è un ambito in cui i mestieri viaggiano al ritmo delle nuove tecnologie. A cercare di fare chiarezza ci ha pensato Uiltucs, il sindacato di categoria della Uil che rappresenta i lavoratori del terziario, turismo, commercio e servizi, ha pubblicato una nuova edizione dell’Osservatorio sulla gig economy in Italia, a due anni dal precedente, rispetto al 2017, nonostante le tutele e i contratti continuino a rimanere inesistenti e le paghe basse, vi sono già molte differenze.
Dal 2017 a oggi, si legge nello studio pubblicato, è aumentata la percentuale di chi lavora su una o più piattaforme che è passata dal 25% di due anni fa al 37%. In soli due anni sempre più persone hanno scelto la gig economy come alternativa a un lavoro stabile, da corroborare con un numero di collaborazioni crescenti, che garantiscano entrate maggiori. Nella ricerca si legge, a conferma di ciò, che si è abbassata la percentuale di chi lavora fino a 2 ore al giorno dal 50% al 30,9%, mentre è aumentata quella di chi lavora dalle da 2 a 4 ore al giorno (29,1%) e ancor più coloro che lavorano più di 4 ore al giorno che passa dal 25% del 2017 al 40% del 2019.
Sebbene la gig economy offra, al momento, poche tutele contrattuali e salari bassi, gli intervistati dicono di optare per tale lavoro digitalizzato per mancanza di altre opportunità, per arrotondare e per una maggiore flessibilità. Tra le attività più gettonate emergono la consegna a domicilio, specie per le piattaforme del food delivery, poi lo sviluppo web, le traduzioni, la compilazione di sondaggi online, attività di grafica, data entry.
La Uil nel suo studio è riuscita altresì a stilare un identikit dei gig workers italiani ad oggi, si tratta di: uomini, per il 73,6% del totale, compresi nella fascia d’età dai 18-34 anni, 53%, con una quota in crescita anche per gli over 50. Lavorano principalmente al Nord, 59%, ma anche il Sud sta evidenziato segnali di crescita, 22% . Il titolo di studio, si legge: “è vario e rispecchia il grado di competenza richiesta per il lavoro stesso” . Nel 2017 La laurea di secondo livello era il titolo più rappresentativo nel con il 31%, nel 2019 la laurea specialistica arretra al 20%. Ora il titolo di studio più frequente tra i gig workers risulta la licenza media superiore (32%) .
Per quanto concerne le garanzie e le tutele del lavoro, ad oggi carenti, pare che qualcosa si stia muovendo, da lontano: In California, dove in realtà tutto è nato, il Senato sta pensando di approvare una norma che impone che i gig workers vengano assunti dalle piattaforme come dipendenti a tutti gli effetti. Si tratterebbe, dicono gli esperti, se ciò accadesse, di un provvedimento storico di importanza mondiale il cui eco potrebbe arrivare in Italia.
La Gig economy è una delle nuove forme di organizzazione dell’economia digitale, in italiano viene tradotta come economia dei lavoretti, quelle mansioni che vengono svolte per arrotondare il proprio stipendio basso, nasce con l’idea di essere una sorta di secondo lavoro, ora in realtà il modello sta evolvendo e anche rapidamente. La gig economy infatti sta prendendo sempre più piede al punto che la stessa Uil ha effettuato uno studio per comprenderne le evoluzioni e i potenziali sviluppi. Per questa ragione sempre più il fenomeno è finito sotto ‘osservazione’ al fine di comprendere come inquadrare aziende e lavoratori che utilizzano tale nuova forma di organizzazione economica.
A spiegare bene cos’é la gig economy ci pensa Claudio Maria Perfetto, Informatico esperto di processi e di organizzazione di Centri di Elaborazione Dati di grandi dimensioni e di elaboratori IBM della classe mainframe, autore di un libro pubblicato da Aracne nel febbraio 2019, dal titolo:
Talvolta, dicono gli esperti, si confonde ancora la gig economy con la sharing economy. La seconda, tuttavia, prevede la condivisione di risorse sottoutilizzate. Mentre la gig economy si
impernia su un lavoro vero e proprio, organizzato dalla piattaforma digitale attraverso freelance. La novità sta proprio nell’organizzazione del lavoro, ma non avviene una condivisione di risorse. La gig economy sta divenendo un fenomeno emergente e sempre più italiani si arruolano nei lavori del macrocosmo della gig economy.
Fotografare il fenomeno e definirne i confini non è però così semplice perché le condizioni lavorative sono prevalentemente senza alcun tipo di garanzia ed è un ambito in cui i mestieri viaggiano al ritmo delle nuove tecnologie. A cercare di fare chiarezza ci ha pensato Uiltucs, il sindacato di categoria della Uil che rappresenta i lavoratori del terziario, turismo, commercio e servizi, ha pubblicato una nuova edizione dell’Osservatorio sulla gig economy in Italia, a due anni dal precedente, rispetto al 2017, nonostante le tutele e i contratti continuino a rimanere inesistenti e le paghe basse, vi sono già molte differenze.
Dal 2017 a oggi, si legge nello studio pubblicato, è aumentata la percentuale di chi lavora su una o più piattaforme che è passata dal 25% di due anni fa al 37%. In soli due anni sempre più persone hanno scelto la gig economy come alternativa a un lavoro stabile, da corroborare con un numero di collaborazioni crescenti, che garantiscano entrate maggiori. Nella ricerca si legge, a conferma di ciò, che si è abbassata la percentuale di chi lavora fino a 2 ore al giorno dal 50% al 30,9%, mentre è aumentata quella di chi lavora dalle da 2 a 4 ore al giorno (29,1%) e ancor più coloro che lavorano più di 4 ore al giorno che passa dal 25% del 2017 al 40% del 2019.
Sebbene la gig economy offra, al momento, poche tutele contrattuali e salari bassi, gli intervistati dicono di optare per tale lavoro digitalizzato per mancanza di altre opportunità, per arrotondare e per una maggiore flessibilità. Tra le attività più gettonate emergono la consegna a domicilio, specie per le piattaforme del food delivery, poi lo sviluppo web, le traduzioni, la compilazione di sondaggi online, attività di grafica, data entry.
La Uil nel suo studio è riuscita altresì a stilare un identikit dei gig workers italiani ad oggi, si tratta di: uomini, per il 73,6% del totale, compresi nella fascia d’età dai 18-34 anni, 53%, con una quota in crescita anche per gli over 50. Lavorano principalmente al Nord, 59%, ma anche il Sud sta evidenziato segnali di crescita, 22% . Il titolo di studio, si legge: “è vario e rispecchia il grado di competenza richiesta per il lavoro stesso” . Nel 2017 La laurea di secondo livello era il titolo più rappresentativo nel con il 31%, nel 2019 la laurea specialistica arretra al 20%. Ora il titolo di studio più frequente tra i gig workers risulta la licenza media superiore (32%) .
Per quanto concerne le garanzie e le tutele del lavoro, ad oggi carenti, pare che qualcosa si stia muovendo, da lontano: In California, dove in realtà tutto è nato, il Senato sta pensando di approvare una norma che impone che i gig workers vengano assunti dalle piattaforme come dipendenti a tutti gli effetti. Si tratterebbe, dicono gli esperti, se ciò accadesse, di un provvedimento storico di importanza mondiale il cui eco potrebbe arrivare in Italia.