Quantitative easing, parte II. Il 2 novembre 2019 la Bce torna a comprare nuovi titoli (perlopiù governativi ma anche una quota di corporate bond) sui mercati aperti. L’annuncio di questa ennesima manovra espansiva – di un pacchetto che ne conta 18 dall’inizio del mandato di Mario Draghidel 2011 – risale al 12 settembre 2019. L’obiettivo esplicito è di sostenere l’economia attraverso una nuova iniezione di liquidità che possa permettere alla Bce di avvicinare l’inflazione nell’area del 2%, come lo statuto della banca centrale “comanda”.
Gli investitori però nelle ultime settimane stanno dimostrando un profondo scetticismo sulla capacità della Bce (se non delle banche centrali in generale a questo punto) di risollevare l’inflazione attraverso una politica in stile quantitative easing. Lo dimostra il fatto che le previsioni sull’inflazione dell’Eurozona nel medio termine (a 5 anni e per i 5 anni successivi) sono risalite dal minimo dell’1,12% all’1,3% (dopo l’annuncio del 12 settembre) ma poi sono rientrate all’1,2%, praticamente sui livelli precedenti la mossa dell’istituto di Francoforte.
A conti fatti, dopo aver centrato l’obiettivo nei primi 10 anni di vita (dal 1999 al 2009 l’inflazione nell’Eurozona si è attestata intorno all’1,8%) nei successivi 10 il livello dei prezzi si è allontanato sensibilmente dalla rotta: 1,2%. E nei prossimi 10 – ci dicono al momento i mercati attraverso il grafico 5y5y inflation Eurozone – le cose non dovrebbero muoversi granché (1,2%).
Tecnicamente il Qe è una misura inflazionistica. I manuali difatti spiegano che immettere nuova liquidità svaluta la valuta di riferimento (in questo caso l’euro) e ciò produce effetti inflazionistici. Allo stesso tempo con più moneta in circolazione crescono le probabilità che possa aumentare il livello dei prezzi nell’economia reale.
Tutto semplice se non fosse che il Qe genera numerosi effetti collaterali, una sorta di forze contrapposte che anziché alimentare l’inflazione producono un effetto contrario: la deflazione.
Molti esperti convergono che siano almeno tre i fattori “deflazionistici” del quantitative easing. E sono legati a uno degli effetti più immediati, e scontati, del Qe: ovvero il calo dei tassi di interesse. Se una banca centrale acquista titoli governativi sulle varie scadenze ottiene automaticamente un effetto calmierante sulla curva dei tassi.
Non a caso dal 2015 – da quando la Bce ha lanciato il primo Qe attraverso il quale fino a dicembre 2018 ha iniettato 2.650 miliardi di euro – la curva dei tassi nell’Eurozona non è mai stata così bassa nella storia. Tanto che su varie scadenze la maggior parte dei Paesi sta sperimentando il paradosso dei tassi negativi. «Perché il Qe crea deflazione? – si chiede Ken Fischer, analista di investimenti americano nonché editorialista del Financial Times e Sole 24 Ore -. Molto semplicemente perché abbassa i tassi. E con i tassi bassi l’inflazione non può salire».
Ecco i tre più grandi effetti collaterali del Qe, quelli che hanno una riconosciuta portata deflazionistica.
1) Il fattore previdenza
«I sistemi previdenziali europei, che investono in titoli di Stato i cui rendimenti sono sempre più bassi, in alcuni casi prossimi allo zero o addirittura negativi – spiega Guido Rosa, presidente Associazione italiana banche estere – . Il rischio è che nel futuro dovranno corrispondere pensioni inferiori con conseguente effetto deflattivo». Distribuire in futuro pensioni più basse avrà l’effetto immediato di indebolire i consumi, appesantendo l’economia.
2) Il fattore economico
«Uno degli effetti collaterali dei tassi bassi è mantenere in vita imprese inefficienti grazie al fatto che queste possono continuare a indebitarsi a costi inferiori rispetto al proprio reale merito creditizio – spiega Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos -. Queste imprese sarebbero spazzate dal mercato se dovessero pagare sul debito tassi più alti. Questo costringe le imprese più efficienti, che producono prodotti di maggior qualità. a non poter alzare i prezzi. Generando un effetto deflativo sull’economia».
3) Il fattore disuguaglianza
A conti fatti il primo quantitative easing ha certamente creato inflazione sui mercati finanziari. Quello dei bond è tecnicamente in bolla, forte degli acquisti delle banche centrali. Ma anche le azioni sono, non a caso, sui massimi storici. Il valore delle Borse mondiali è passato dal 2009, anno primo del Qe con la Federal Reserve, da 30mila miliardi di dollari a 80mila. Anche il valore dei bond ha avuto una parabola simile, esplodendo da 20mila miliardi a 55mila miliardi.
Il punto è che il ceto medio-basso della popolazione – l’unico quantitativamente parlando in grado di impattare, attraverso la dinamica della crescita dei salari, sull’inflazione dell’economia reale – non ha potuto beneficiare di questa creazione di ricchezza finanziaria. Ecco perché una delle accuse che più frequentemente viene addebitata al Qe è di aumentare la disuguaglianza sociale, permettendo al ceto benestante (lo stesso che in Europa può e tende a investire sui mercati finanziari) di arricchirsi di più e a quello medio-basso di non partecipare a questa sorta di “bonus finanziario”.
Autore: Vito Lops
Fonte: Il Sole 24 Ore
Quantitative easing, parte II. Il 2 novembre 2019 la Bce torna a comprare nuovi titoli (perlopiù governativi ma anche una quota di corporate bond) sui mercati aperti. L’annuncio di questa ennesima manovra espansiva – di un pacchetto che ne conta 18 dall’inizio del mandato di Mario Draghidel 2011 – risale al 12 settembre 2019. L’obiettivo esplicito è di sostenere l’economia attraverso una nuova iniezione di liquidità che possa permettere alla Bce di avvicinare l’inflazione nell’area del 2%, come lo statuto della banca centrale “comanda”.
Gli investitori però nelle ultime settimane stanno dimostrando un profondo scetticismo sulla capacità della Bce (se non delle banche centrali in generale a questo punto) di risollevare l’inflazione attraverso una politica in stile quantitative easing. Lo dimostra il fatto che le previsioni sull’inflazione dell’Eurozona nel medio termine (a 5 anni e per i 5 anni successivi) sono risalite dal minimo dell’1,12% all’1,3% (dopo l’annuncio del 12 settembre) ma poi sono rientrate all’1,2%, praticamente sui livelli precedenti la mossa dell’istituto di Francoforte.
A conti fatti, dopo aver centrato l’obiettivo nei primi 10 anni di vita (dal 1999 al 2009 l’inflazione nell’Eurozona si è attestata intorno all’1,8%) nei successivi 10 il livello dei prezzi si è allontanato sensibilmente dalla rotta: 1,2%. E nei prossimi 10 – ci dicono al momento i mercati attraverso il grafico 5y5y inflation Eurozone – le cose non dovrebbero muoversi granché (1,2%).
Tecnicamente il Qe è una misura inflazionistica. I manuali difatti spiegano che immettere nuova liquidità svaluta la valuta di riferimento (in questo caso l’euro) e ciò produce effetti inflazionistici. Allo stesso tempo con più moneta in circolazione crescono le probabilità che possa aumentare il livello dei prezzi nell’economia reale.
Tutto semplice se non fosse che il Qe genera numerosi effetti collaterali, una sorta di forze contrapposte che anziché alimentare l’inflazione producono un effetto contrario: la deflazione.
Molti esperti convergono che siano almeno tre i fattori “deflazionistici” del quantitative easing. E sono legati a uno degli effetti più immediati, e scontati, del Qe: ovvero il calo dei tassi di interesse. Se una banca centrale acquista titoli governativi sulle varie scadenze ottiene automaticamente un effetto calmierante sulla curva dei tassi.
Non a caso dal 2015 – da quando la Bce ha lanciato il primo Qe attraverso il quale fino a dicembre 2018 ha iniettato 2.650 miliardi di euro – la curva dei tassi nell’Eurozona non è mai stata così bassa nella storia. Tanto che su varie scadenze la maggior parte dei Paesi sta sperimentando il paradosso dei tassi negativi. «Perché il Qe crea deflazione? – si chiede Ken Fischer, analista di investimenti americano nonché editorialista del Financial Times e Sole 24 Ore -. Molto semplicemente perché abbassa i tassi. E con i tassi bassi l’inflazione non può salire».
Ecco i tre più grandi effetti collaterali del Qe, quelli che hanno una riconosciuta portata deflazionistica.
1) Il fattore previdenza
«I sistemi previdenziali europei, che investono in titoli di Stato i cui rendimenti sono sempre più bassi, in alcuni casi prossimi allo zero o addirittura negativi – spiega Guido Rosa, presidente Associazione italiana banche estere – . Il rischio è che nel futuro dovranno corrispondere pensioni inferiori con conseguente effetto deflattivo». Distribuire in futuro pensioni più basse avrà l’effetto immediato di indebolire i consumi, appesantendo l’economia.
2) Il fattore economico
«Uno degli effetti collaterali dei tassi bassi è mantenere in vita imprese inefficienti grazie al fatto che queste possono continuare a indebitarsi a costi inferiori rispetto al proprio reale merito creditizio – spiega Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos -. Queste imprese sarebbero spazzate dal mercato se dovessero pagare sul debito tassi più alti. Questo costringe le imprese più efficienti, che producono prodotti di maggior qualità. a non poter alzare i prezzi. Generando un effetto deflativo sull’economia».
3) Il fattore disuguaglianza
A conti fatti il primo quantitative easing ha certamente creato inflazione sui mercati finanziari. Quello dei bond è tecnicamente in bolla, forte degli acquisti delle banche centrali. Ma anche le azioni sono, non a caso, sui massimi storici. Il valore delle Borse mondiali è passato dal 2009, anno primo del Qe con la Federal Reserve, da 30mila miliardi di dollari a 80mila. Anche il valore dei bond ha avuto una parabola simile, esplodendo da 20mila miliardi a 55mila miliardi.
Il punto è che il ceto medio-basso della popolazione – l’unico quantitativamente parlando in grado di impattare, attraverso la dinamica della crescita dei salari, sull’inflazione dell’economia reale – non ha potuto beneficiare di questa creazione di ricchezza finanziaria. Ecco perché una delle accuse che più frequentemente viene addebitata al Qe è di aumentare la disuguaglianza sociale, permettendo al ceto benestante (lo stesso che in Europa può e tende a investire sui mercati finanziari) di arricchirsi di più e a quello medio-basso di non partecipare a questa sorta di “bonus finanziario”.
Autore: Vito Lops
Fonte: Il Sole 24 Ore