Il sistema bancario italiano ha fatto passi da gigante. Se solo nel 2015 gli istituti di credito della Penisola soffocavano sotto una montagna di 341 miliardi di euro di crediti deteriorati lordi, ora ne hanno meno della metà: 168 miliardi. Eppure quello che sembra un traguardo, un punto d’arrivo su cui sedersi, in realtà non lo è. Non solo perché rispetto agli altri Paesi le banche italiane hanno ancora troppi crediti deteriorati in bilancio. Ma anche perché la Bce ha fissato l’obiettivo – valido in tutti i Paesi europei – di arrivare a un rapporto tra crediti deteriorati e totale crediti al 5% entro il 2021: questo – secondo le stime realizzate da Banca Ifis – significa che le banche italiane (che ora sono al 9%) dovranno vendere altri 80 miliardi di crediti dubbi nei prossimi due anni. Una sfida quasi proibitiva per un Paese che ha già ingolfato il mercato con 173 miliardi ceduti in soli quattro anni.
Scorrendo il rapporto sul mondo dei crediti deteriorati elaborato da Banca Ifis, e presentato ieri a Venezia, emerge insomma un messaggio solo per metà rassicurante. Di sforzi in questi anni ne sono stati fatti certamente tanti. I dati di Banca Ifis sono chiari a riguardo: nel 2015 il rapporto tra crediti deteriorati e totale crediti era arrivato al picco del 17%, mentre ora è sceso al 9%. Ma siamo ancora lontani dagli altri Paesi europei. E soprattutto siamo lontani dal 5% imposto dalla Bce entro il 2021. Ad oggi solo il Trentino rispetta il limite (ha un rapporto al 5,1%), ma alcune Regioni sono anni luce: come la Calabria (15,5%), la Sardegna (14,8%), l’Abruzzo (14,5%) o l’Umbria (14%).
Ma non è solo questo il problema. Un nodo ancora da sciogliere è quello dei crediti semi-deteriorati: i cosiddetti Utp, o – tradotto in italiano – le «inadempienze probabili». Questa tipologia di crediti (deteriorati ma ancora salvabili) in realtà ha un tasso di peggioramento troppo elevato: l’1,2% del monte-Utp va infatti in sofferenza, quando prima della crisi il rapporto stava sotto l’1%. Questo significa probabilmente che molti crediti catalogati come Utp sono in realtà più simili alle sofferenze. Il secondo problema è che la parte più debole dei crediti semi-deteriorati si trova in un settore industriale ben preciso: quello delle costruzioni. Ancora oggi finisce in sofferenza il 4,36% dei crediti semi-deteriorati concessi ad aziende di questo settore: percentuale elevata. E questo è un problema serio per l’economia italiana, perché il 49% delle Pmi italiane lavora proprio nel settore delle costruzioni.
Tutto questo porta a una conclusione: le banche dovranno vendere ancora tanti crediti deteriorati (sia Npl sia Utp). La domanda – che non emerge dallo studio – è se il mercato non sia un po’ saturo. Non sul fronte degli investitori, che abbondano, ma su quello delle società attive ne recupero crediti: i cosiddetti servicer hanno infatti una mole enorme di lavoro (i primi 10 hanno in gestione 256 miliardi di euro di sofferenze) ma devono investire ancora tanto in tecnologia e personale. Sembrano però in ritardo. Chi ha cantato vittoria per lo smaltimento dei crediti deteriorati, forse, ha cantato troppo presto.
Autore: Morya Longo
Fonte: Il Sole 24 Ore
Il sistema bancario italiano ha fatto passi da gigante. Se solo nel 2015 gli istituti di credito della Penisola soffocavano sotto una montagna di 341 miliardi di euro di crediti deteriorati lordi, ora ne hanno meno della metà: 168 miliardi. Eppure quello che sembra un traguardo, un punto d’arrivo su cui sedersi, in realtà non lo è. Non solo perché rispetto agli altri Paesi le banche italiane hanno ancora troppi crediti deteriorati in bilancio. Ma anche perché la Bce ha fissato l’obiettivo – valido in tutti i Paesi europei – di arrivare a un rapporto tra crediti deteriorati e totale crediti al 5% entro il 2021: questo – secondo le stime realizzate da Banca Ifis – significa che le banche italiane (che ora sono al 9%) dovranno vendere altri 80 miliardi di crediti dubbi nei prossimi due anni. Una sfida quasi proibitiva per un Paese che ha già ingolfato il mercato con 173 miliardi ceduti in soli quattro anni.
Scorrendo il rapporto sul mondo dei crediti deteriorati elaborato da Banca Ifis, e presentato ieri a Venezia, emerge insomma un messaggio solo per metà rassicurante. Di sforzi in questi anni ne sono stati fatti certamente tanti. I dati di Banca Ifis sono chiari a riguardo: nel 2015 il rapporto tra crediti deteriorati e totale crediti era arrivato al picco del 17%, mentre ora è sceso al 9%. Ma siamo ancora lontani dagli altri Paesi europei. E soprattutto siamo lontani dal 5% imposto dalla Bce entro il 2021. Ad oggi solo il Trentino rispetta il limite (ha un rapporto al 5,1%), ma alcune Regioni sono anni luce: come la Calabria (15,5%), la Sardegna (14,8%), l’Abruzzo (14,5%) o l’Umbria (14%).
Ma non è solo questo il problema. Un nodo ancora da sciogliere è quello dei crediti semi-deteriorati: i cosiddetti Utp, o – tradotto in italiano – le «inadempienze probabili». Questa tipologia di crediti (deteriorati ma ancora salvabili) in realtà ha un tasso di peggioramento troppo elevato: l’1,2% del monte-Utp va infatti in sofferenza, quando prima della crisi il rapporto stava sotto l’1%. Questo significa probabilmente che molti crediti catalogati come Utp sono in realtà più simili alle sofferenze. Il secondo problema è che la parte più debole dei crediti semi-deteriorati si trova in un settore industriale ben preciso: quello delle costruzioni. Ancora oggi finisce in sofferenza il 4,36% dei crediti semi-deteriorati concessi ad aziende di questo settore: percentuale elevata. E questo è un problema serio per l’economia italiana, perché il 49% delle Pmi italiane lavora proprio nel settore delle costruzioni.
Tutto questo porta a una conclusione: le banche dovranno vendere ancora tanti crediti deteriorati (sia Npl sia Utp). La domanda – che non emerge dallo studio – è se il mercato non sia un po’ saturo. Non sul fronte degli investitori, che abbondano, ma su quello delle società attive ne recupero crediti: i cosiddetti servicer hanno infatti una mole enorme di lavoro (i primi 10 hanno in gestione 256 miliardi di euro di sofferenze) ma devono investire ancora tanto in tecnologia e personale. Sembrano però in ritardo. Chi ha cantato vittoria per lo smaltimento dei crediti deteriorati, forse, ha cantato troppo presto.
Autore: Morya Longo
Fonte: Il Sole 24 Ore