La buona notizia è che le cartolarizzazioni di crediti in sofferenza, realizzate dalle banche italiane negli ultimi anni per ripulire i bilanci, in media stanno registrando performance in linea con quanto previsto nei piani industriali. A certificarlo è Moody’s, che ieri ha pubblicato uno studio sul tema. La cattiva notizia, però, è che questa media ricorda tanto il famoso pollo di Trilussa: su 14 cartolarizzazioni di crediti deteriorati censite dall’agenzia di rating, 9 hanno infatti performance peggiori rispetto alle previsioni dei business plan mentre 5 vanno meglio. Quindi se in apparenza tutto è tranquillo, nella realtà il mondo delle cartolarizzazioni italiane di crediti deteriorati presenta qualche criticità. O, quantomeno, qualche zona d’ombra. E dato che su queste cartolarizzazioni (tranne una delle 14 censite da Moody’s) lo Stato ha messo la propria garanzia (Gacs), le zone d’ombra di oggi non sono da sottovalutare: perché potrebbero diventare un costo per i contribuenti domani.
Il tema è tecnico, ma – dato il coinvolgimento delle casse statali – è anche di interesse pubblico. Le banche, come noto, hanno venduto agli investitori specializzati negli ultimi anni circa 170 miliardi di crediti deteriorati. Per farlo, il più delle volte hanno usato la tecnica della cartolarizzazione. Una volta venduti, questi crediti devono però essere recuperati: a farlo sono società di recupero (i cosiddetti servicer), i quali piano piano contattano i debitori morosi per raggiungere un accordo transattivo, oppure avviano azioni legali finalizzate al recupero. Alla fine i soldi recuperati vanno a rimborsare le obbligazioni emesse con la cartolarizzazione e il cerchio si chiude. Sapere se il recupero è in linea o meno con le previsioni iniziali dei piani industriali è dunque fondamentale per capire la solidità delle obbligazioni. Ed è fondamentale per capire se mai lo Stato dovrà pagare un giorno le garanzie.
Ovviamente è troppo presto per avere risposte, ma il rapporto di Moody’s offre qualche indicazione utile. In media, come detto, le cartolarizzazioni italiane di crediti deteriorate vanno come previsto. E questa è un’ottima notizia. Però se si guardano le singole operazioni, si vedono differenze abissali: la cartolarizzazione Elrond realizzata dal Creval nel 2017, per esempio, ha recuperi che sono il 27% inferiori alle previsioni, quella realizzata da Mps nel 2018 è sotto del 15% e quella della Popolare di Bari del 2017 del 9%. Per contro ci sono operazioni che vanno molto bene, come la Read Sea realizzata da Banco Bpm che ha già recuperato 368 milioni di euro mentre il piano industriale a questo punto ne prevedeva 290.
Il punto è che nelle performance non sono contemplati solo i risultati raggiunti dal servicer che recupera i crediti. Ma sono incluse anche le plusvalenze derivanti dalle rivendite di crediti deteriorati: nel 2019 circa il 35% del mercato degli Npl è stato costituito proprio dalle rivendite. Questo ovviamente può aver influito nei risultati, gonfiandoli. Moody’s però non dispone di dati sufficienti per stabilire quale percentuale delle performance sia data dall’effettivo recupero e quanto dalla rivendita.
E ancora non ha informazioni sufficienti per stabilire cosa faccia la differenza tra le cartolarizzazioni che vanno bene e quelle che vanno male. «Quelle che sottoperformano – spiega Michelangelo Margaria, senior vice president di Moody’s -. Potrebbero aver pagato un’eccessiva fretta in fase di due diligence del portafoglio».
Autore: Morya Longo
Fonte: Il Sole 24 Ore
La buona notizia è che le cartolarizzazioni di crediti in sofferenza, realizzate dalle banche italiane negli ultimi anni per ripulire i bilanci, in media stanno registrando performance in linea con quanto previsto nei piani industriali. A certificarlo è Moody’s, che ieri ha pubblicato uno studio sul tema. La cattiva notizia, però, è che questa media ricorda tanto il famoso pollo di Trilussa: su 14 cartolarizzazioni di crediti deteriorati censite dall’agenzia di rating, 9 hanno infatti performance peggiori rispetto alle previsioni dei business plan mentre 5 vanno meglio. Quindi se in apparenza tutto è tranquillo, nella realtà il mondo delle cartolarizzazioni italiane di crediti deteriorati presenta qualche criticità. O, quantomeno, qualche zona d’ombra. E dato che su queste cartolarizzazioni (tranne una delle 14 censite da Moody’s) lo Stato ha messo la propria garanzia (Gacs), le zone d’ombra di oggi non sono da sottovalutare: perché potrebbero diventare un costo per i contribuenti domani.
Il tema è tecnico, ma – dato il coinvolgimento delle casse statali – è anche di interesse pubblico. Le banche, come noto, hanno venduto agli investitori specializzati negli ultimi anni circa 170 miliardi di crediti deteriorati. Per farlo, il più delle volte hanno usato la tecnica della cartolarizzazione. Una volta venduti, questi crediti devono però essere recuperati: a farlo sono società di recupero (i cosiddetti servicer), i quali piano piano contattano i debitori morosi per raggiungere un accordo transattivo, oppure avviano azioni legali finalizzate al recupero. Alla fine i soldi recuperati vanno a rimborsare le obbligazioni emesse con la cartolarizzazione e il cerchio si chiude. Sapere se il recupero è in linea o meno con le previsioni iniziali dei piani industriali è dunque fondamentale per capire la solidità delle obbligazioni. Ed è fondamentale per capire se mai lo Stato dovrà pagare un giorno le garanzie.
Ovviamente è troppo presto per avere risposte, ma il rapporto di Moody’s offre qualche indicazione utile. In media, come detto, le cartolarizzazioni italiane di crediti deteriorate vanno come previsto. E questa è un’ottima notizia. Però se si guardano le singole operazioni, si vedono differenze abissali: la cartolarizzazione Elrond realizzata dal Creval nel 2017, per esempio, ha recuperi che sono il 27% inferiori alle previsioni, quella realizzata da Mps nel 2018 è sotto del 15% e quella della Popolare di Bari del 2017 del 9%. Per contro ci sono operazioni che vanno molto bene, come la Read Sea realizzata da Banco Bpm che ha già recuperato 368 milioni di euro mentre il piano industriale a questo punto ne prevedeva 290.
Il punto è che nelle performance non sono contemplati solo i risultati raggiunti dal servicer che recupera i crediti. Ma sono incluse anche le plusvalenze derivanti dalle rivendite di crediti deteriorati: nel 2019 circa il 35% del mercato degli Npl è stato costituito proprio dalle rivendite. Questo ovviamente può aver influito nei risultati, gonfiandoli. Moody’s però non dispone di dati sufficienti per stabilire quale percentuale delle performance sia data dall’effettivo recupero e quanto dalla rivendita.
E ancora non ha informazioni sufficienti per stabilire cosa faccia la differenza tra le cartolarizzazioni che vanno bene e quelle che vanno male. «Quelle che sottoperformano – spiega Michelangelo Margaria, senior vice president di Moody’s -. Potrebbero aver pagato un’eccessiva fretta in fase di due diligence del portafoglio».
Autore: Morya Longo
Fonte: Il Sole 24 Ore