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Bitcoin, ecco perché non è una moneta. Il vero valore? La blockchain

Il Bitcoin è considerato una “criptovaluta”. Cioè, come recita Wikipedia, una moneta paritaria digitale e decentralizzata la cui implementazione si basa sulla crittografia. Sia per convalidarne le transazioni che per la sua generazione.
Al di là della definizione, tuttavia, una domanda spesso accompagna il Bitcoin: si tratta realmente di una moneta? La risposta non è semplice. E, però, un metodo per tentare di risolvere il “dilemma” può essere il seguente: in primis si guarda alle caratteristiche che storicamente, e in linea di massima, sono state attribuite a ciò che è comunemente considerata moneta; poi si analizza se tali caratteristiche sono riscontrabili anche nel Bitcoin. Infine si traggono le eventuali conclusioni.

Unità di conto
Orbene: una prima funzione tradizionalmente attribuita alla moneta è quella di essere unità di conto. Vale a dire: l’oggetto-moneta è un metro comune per misurare il valore, ad esempio, delle transazioni commerciali. Si tratta, a ben vedere, della funzione che gli storici considerano più antica. La rendicontazione finanziaria, come ricorda William N. Goetzman, è una tra le prime funzioni economiche sviluppate nell’antichità. Intorno al 3.100 a.C. gli abitanti di Uruk, in Mesopotamia, hanno iniziato ad utilizzare tavolette di argilla pittografiche per registrare, e contabilizzare, le transazioni commerciali.

Mezzo di scambio
La seconda funzione della moneta è l’essere mezzo di scambio. «Consiste nella possibilità – spiega Luca Fantacci, docente di storia economica all’Università Bocconi – di accettare un oggetto in cambio di un altro, con l’aspettativa/fiducia di potere utilizzare l’oggetto stesso in altri scambi». L’aspettativa/fiducia è ovviamente una condizione essenziale affinché la moneta possa utilizzarsi quale mezzo di scambio. Con il che, però, sorge la domanda: questa condizione a sua volta su cosa si fonda? «Può basarsi su diversi elementi –risponde Fantacci –. Un esempio? Le caratteristiche intrinseche dell’oggetto stesso. Così nell’oro, spesso usato quale moneta di scambio, è rilevante la sua scarsità. Oltre, poi, alla sua fungibilità, omogeneità e incorruttibilità». In tal senso può ricordarsi che, nel momento in cui una moneta nel passato era “accettata” in funzione del metallo prezioso in essa incorporata, gli storici parlano di moneta-merce.
Già, la moneta-merce. Ma quale la base dell’aspettativa/fiducia se, come nel caso della valuta cartacea, non ci sono caratteristiche intrinseche su cui basarsi? In questi casi, sottolineano gli esperti, è rilevante l’attività di un’autorità pubblica che consente all’oggetto di mantenere (più o meno) inalterato il potere di scambio. Quando l’autorità viene meno a questo compito l’aspettativa/fiducia si riduce o scompare. È il caso, per intenderci, di una banca centrale che sbaglia la politica monetaria e induce una fortissima svalutazione della moneta. L’aspettativa/fiducia sulla moneta, in un simile scenario, può calare.

Mezzo di pagamento e riserva di valore
Arrivati a questo punto i manuali di economia, normalmente, passano a descrivere la terza funzione della moneta: la riserva di valore. Cioè: la capacità dell’oggetto (la valuta) da una parte di conservare il suo valore nel tempo; e dall’altra, proprio in forza di questo motivo, di essere tenuta per un uso futuro senza il pericolo di “deteriorarsi”. Prima della riserva di valore, tuttavia, deve sottolinearsi un’altra caratteristica: la moneta come mezzo di pagamento. Quest’ultima funzione si sovrappone a quella di mezzo di scambio. In realtà sono due caratteristiche diverse. Il mezzo di scambio, infatti, non ha una dimensione temporale. È l’utilizzo della valuta, per l’appunto, in uno scambio che si conclude qui e adesso. È uno strumento che rende interscambiabili gli oggetti. Al contrario la funzione di mezzo di pagamento consente alla moneta di estinguere il debito che è stato contratto. È il potere liberatorio del mezzo di pagamento che permette al debitore di sgravarsi dell’onere che pesa su di lui. Si tratta, a ben vedere, di una funzione che da una parte introduce la dimensione temporale; e, dall’altra, richiede la presenza di una struttura socio-economica-giuridica la quale riconosca il potere liberatorio alla moneta stessa. Non è necessario, si badi bene, l’esistenza di una sanzione. Bensì della struttura che riconosca alla valuta, per l’appunto, il potere liberatorio.

Il confronto con il Bitcoin
A questo punto, ricordate in linea di massima le quattro funzioni della moneta, può passarsi al Bitcoin. Orbene: la criptovaluta ha la funzione di unità di conto? «A mio parere no – risponde Ferdinando Ametrano, docente Bitcoin e Blockchain Tecnologies all’Università Bicocca di Milano -. L’offerta finale del numero di Bitcoin è definita. Una condizione che, nei fatti, lo rende volatile. Variabile nel suo valore con il mutare della domanda». In un simile contesto «la criptovaluta non può considerarsi unità di conto perché è come un metro che, con il passare del tempo, si allunga o si accorcia». Di conseguenza non è un buono strumento da usarsi nella contabilizzazione.

La criptovaluta come mezzo di scambio?
Riguardo, invece, alla funzione mezzo di scambio? Rispetto a questo fronte gli esperti, in generale, sono concordi nell’attribuirgli la caratteristica in oggetto. Cioè: il Bitcoin è un mezzo di scambio. Al che, però, il signor Rossi esprime un dubbio: la criptovaluta, come è stato dimostrato dagli sbalzi delle quotazioni verso il dollaro, è soggetta a continui mutamenti del suo valore. Ebbene: in che modo può essere un mezzo di scambio? La risposta, secondo gli analisti, deve ritrovarsi nel concetto stesso di mezzo di scambio. Questa, per l’appunto, è una funzione a-temporale. «Si può decidere, ad esempio – spiega Fantacci –, di scambiare il proprio pc con un numero di Bitcoin in un determinato istante». Lo scambio, in tal senso, può concretizzarsi. Al contrario non sarà possibile fissare il prezzo del personal computer nella criptovaluta. «Perchè – fa da eco Ametrano – il Bitcoin non è un’unità di conto».
Insomma: molti considerano il Bitcoin, perlomeno nella versione in cui si è sviluppato fino ad oggi, è assimilabile all’oro. Non di rado viene definito “oro digitale”. È un mezzo di scambio in quanto, dicono gli esperti, l’aspettativa/fiducia sulla possibilità di utilizzare il Bitcoin in altri scambi è legata alle sue caratteristiche intrinseche: scarsità, fungibilità, incorruttibilità, omogeneità. Caratteristiche che, a differenza dell’oro “vero”, sono garantite dalla tecnologia su cui si basa. Essenzialmente la blockchain.

Rispetto al mezzo di pagamento?
Seguendo la logica, e le definizioni, finora utilizzate il Bitcoin non ha la funzione di mezzo di pagamento. In primis, come si è già accennato, non è possibile inserire l’elemento temporale in una transazione con il Bitcoin. O meglio: lo si può anche fare ma, a fronte della volatilità dello stesso, l’operazione diventa inefficiente. «Sarà banale – sottolinea Massimo Amato, esperto di istituzioni monetarie e finanziare e docente alla Bocconi –. Tuttavia non deve mai dimenticarsi che di una moneta non ci si deve preoccupare». In che senso? «Una divisa deve essere efficiente. Nelle transazioni commerciali non può diventare un problema la denominazione dell’operazione in una determinata valuta». Se ciò accade, ovviamente, c’è un problema. Non solo.È difficile immaginare un sistema socio-economico-giuridico che attribuisca al Bitcoin il potere liberatorio dal debito. Allo stato attuale non esiste. Magari in un futuro potrà accadere. Ma in questo caso bisognerà capire se, e quanto, il meccanismo individuato potrà essere coerente con il “white paper” di Satoshi Nagamoto. Il noto scritto, infatti, individua «una “pura” versione peer-to-peer di liquidità elettronica…» che «…consenta di essere direttamente trasferita da una parte all’altra senza il passaggio da una istituzione finanziaria».

Vale a dire: non deve esserci una parte centrale che legittima il potere liberatorio dal debito. Proprio per questo, quando si sente parlare di Banche centrali che studiano il Bitcoin per emetterne una loro versione, in realtà tali istituzioni non tentano di appropriarsi della struttura della criptovaluta nel suo insieme. Bensì sfruttano la tecnologia che ne è alla base: la blockchain. Il Bitcoin emesso da una Banca centrale, o da uno Stato sovrano, per sua definizione non è più un Bitcoin. Perlomeno non lo è nella versione originale pensata da Satoshi Nagamoto.

Infine la riserva di valore…
Rispetto a quest’ultimo elemento, per quanto ampiamente indicato sopra, pare molto difficile attribuire alla criptovaluta la funzione di riserva di valore. Certo: può obiettarsi che questa funzione potrebbe essere ricondotta (alcuni esperti lo fanno) alla capacità che la moneta mantenga “nominalmente” la sua identità nel tempo. Tuttavia la volatilità di cui si è ampliamente discusso impedisce al Bitcoin di essere riserva di valore. Anche perchè, da una parte, è vero che la sua traiettoria (di là dai recenti crolli) è nel medio periodo impostata rialzo; ma, dall’altra, la sua rigidità dal lato dell’offerta rende il Bitcoin troppo “sensibile” alla domanda. Il che non lo fa considerare una riserva di valore. Perlomeno non efficiente.
Insomma: allo stato attuale il Bitcoin non è definibile come una moneta; piuttosto è un mezzo di scambio. Nel futuro le cose potrebbero cambiare. Comunque una cosa deve sottolinearsi: si tratta di un’importante novità. In particolare la tecnologia che lo sottende (blockchain). Che non va “esaltata” a prescindere ma nemmeno demonizzata.


Autore: Vittorio Carlini
Fonte:

Il Sole 24 Ore

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