Dimenticate le sofferenze bancarie. Se cè una categoria di crediti deteriorati su cui si sta concentrando lattenzione di banchieri, regolatori e analisti, quello è il segmento delle inadempienze probabili, i cosiddetti unlikely to pay. Avendo raggiunto la cifra di 123 miliardi di euro, le inadempienze rappresentano circa il 37% del totale dei crediti deteriorati totali del sistema italiano. Una quota imponente, che, ai dati di metà 2016, rappresenta un po più della metà delle sofferenze lorde in circolazione.
Il bubbone è lì, pronto a esplodere qualora le cose si mettessero male. Ma, di converso, la quota di inadempienze potrebbe anche trasformarsi in unopportunità di recupero per le banche, se i segnali di ripresa dovessero consolidarsi. Le inadempienze probabili – quelle che, prima dellintroduzione dei nuovi standard Eba, erano conosciute come ristrutturati e incagli – sono infatti un credito il cui stato di salute è peggiore degli scaduti (con oltre 90 giorni di ritardo) ma migliore della sofferenza vera a propria, ovvero la condizione di insolvenza conclamata. Dal purgatorio delle inadempienze si può anche uscire. Non a caso nel 2015, circa il 22% degli unlikely to pay sono tornati in bonis, secondo i calcoli di Pwc, che ha appena curato uno studio ad hoc sul tema. «Questo significa che, sulla base dellesperienza passata, ci sono circa trenta miliardi di euro di crediti oggi ritenuti malati che potrebbero tornare sani», spiega Katia Mariotti, partner di Pwc e curatrice dello studio. Senza contare che il trend dà segnali confortanti: lafflusso da crediti performing si sta sgonfiando, passando dal 36% del 2014 al 22% del 2015.
Il dossier sta diventando di grande attualità agli occhi della Bce, che sta monitorando con grande attenzione i movimenti delle banche su questo fronte. E per due motivi in particolare. Il primo è che dal 2018 una porzione ampia di crediti oggi valutati come performing rischia di essere riclassificata come non performing, e quindi di finire nuovamente tra gli unlikely to pay, vanificando gli sforzi fatti fino ad oggi. Colpa dellintroduzione dei nuovi principi contabili Ifrs 9 che, sostituendo gli Ias 39, prevedono ladozione di una valutazione della rischiosità dei crediti più in unottica prospettica (forward looking) che non puntuale. Le simulazioni sul tema sono in corso tra le principali banche italiane, e con esse le valutazioni degli impatti potenziali. Da qua lallarme di Bce.
Il secondo motivo di attenzione deriva dalla concentrazione: l81% delle inadempienze è affare delle prime 10 banche italiane. La Vigilanza vuole che gli istituti accantonino sempre più capitale per evitare contraccolpi in caso di deterioramento del quadro economico. Gli Utp erano coperti in media al 27% nel 2015. Troppo poco per gli ispettori, che stanno chiedendo di accelerare su questo fronte. Nei piani di recupero dei non performing che gli istituti stanno inviando a Francoforte – la cui scadenza è fissata per fine mese – deve essere indicata anche la strategia adottata su questa particolare categoria di crediti. Una strategia che deve essere sempre più proattiva. «Molto delleffettivo recupero finale – conclude Mariotti – dipenderà dalla capacità delle banche di mixare le competenze, facendo lavorare insieme i team del corporate finance con chi conosce il business, in una logica che guardi lontano».
Autore: Luca Davi
Fonte:
Il Sole 24 Ore
settore bancario – crediti deteriorati – npl
Dimenticate le sofferenze bancarie. Se cè una categoria di crediti deteriorati su cui si sta concentrando lattenzione di banchieri, regolatori e analisti, quello è il segmento delle inadempienze probabili, i cosiddetti unlikely to pay. Avendo raggiunto la cifra di 123 miliardi di euro, le inadempienze rappresentano circa il 37% del totale dei crediti deteriorati totali del sistema italiano. Una quota imponente, che, ai dati di metà 2016, rappresenta un po più della metà delle sofferenze lorde in circolazione.
Il bubbone è lì, pronto a esplodere qualora le cose si mettessero male. Ma, di converso, la quota di inadempienze potrebbe anche trasformarsi in unopportunità di recupero per le banche, se i segnali di ripresa dovessero consolidarsi. Le inadempienze probabili – quelle che, prima dellintroduzione dei nuovi standard Eba, erano conosciute come ristrutturati e incagli – sono infatti un credito il cui stato di salute è peggiore degli scaduti (con oltre 90 giorni di ritardo) ma migliore della sofferenza vera a propria, ovvero la condizione di insolvenza conclamata. Dal purgatorio delle inadempienze si può anche uscire. Non a caso nel 2015, circa il 22% degli unlikely to pay sono tornati in bonis, secondo i calcoli di Pwc, che ha appena curato uno studio ad hoc sul tema. «Questo significa che, sulla base dellesperienza passata, ci sono circa trenta miliardi di euro di crediti oggi ritenuti malati che potrebbero tornare sani», spiega Katia Mariotti, partner di Pwc e curatrice dello studio. Senza contare che il trend dà segnali confortanti: lafflusso da crediti performing si sta sgonfiando, passando dal 36% del 2014 al 22% del 2015.
Il dossier sta diventando di grande attualità agli occhi della Bce, che sta monitorando con grande attenzione i movimenti delle banche su questo fronte. E per due motivi in particolare. Il primo è che dal 2018 una porzione ampia di crediti oggi valutati come performing rischia di essere riclassificata come non performing, e quindi di finire nuovamente tra gli unlikely to pay, vanificando gli sforzi fatti fino ad oggi. Colpa dellintroduzione dei nuovi principi contabili Ifrs 9 che, sostituendo gli Ias 39, prevedono ladozione di una valutazione della rischiosità dei crediti più in unottica prospettica (forward looking) che non puntuale. Le simulazioni sul tema sono in corso tra le principali banche italiane, e con esse le valutazioni degli impatti potenziali. Da qua lallarme di Bce.
Il secondo motivo di attenzione deriva dalla concentrazione: l81% delle inadempienze è affare delle prime 10 banche italiane. La Vigilanza vuole che gli istituti accantonino sempre più capitale per evitare contraccolpi in caso di deterioramento del quadro economico. Gli Utp erano coperti in media al 27% nel 2015. Troppo poco per gli ispettori, che stanno chiedendo di accelerare su questo fronte. Nei piani di recupero dei non performing che gli istituti stanno inviando a Francoforte – la cui scadenza è fissata per fine mese – deve essere indicata anche la strategia adottata su questa particolare categoria di crediti. Una strategia che deve essere sempre più proattiva. «Molto delleffettivo recupero finale – conclude Mariotti – dipenderà dalla capacità delle banche di mixare le competenze, facendo lavorare insieme i team del corporate finance con chi conosce il business, in una logica che guardi lontano».
Autore: Luca Davi
Fonte:
Il Sole 24 Ore
settore bancario – crediti deteriorati – npl