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Copertura dei crediti deteriorati: Italia meglio della media europea

Le banche italiane non sono “scoperte” sui crediti deteriorati. Se si guarda alle banche quotate a Piazza Affari, il tasso di copertura arriva al 46% e, se si considerano anche le garanzie collaterali, si arriva a sfiorare l’88%. Il problema non è neppure la dotazione patrimoniale delle banche che hanno speso gli ultimi anni a fare aumenti di capitale a ripetizione per adeguare i ratio ai sempre più elevati obiettivi posti dalla vigilanza. Il vero handicap sono i tempi di recupero – mediamente 7-8 anni per escutere un credito – così lunghi rispetto agli standard internazionali non solo da compromettere il valore reale dell’asset, ma da “sporcare” i bilanci delle banche italiane che, nella fase attuale, si portano dietro tutto il peso della crisi dal fallimento della Lehman in avanti, per gli altri istituti europei un incubo già ammortizzato a rate.

L’handicap delle sofferenze che si accumulano, strutturalmente insito nel sistema (la riforma del diritto fallimentare è un passo nella giusta direzione, ma non basta), è noto e segnalato da anni, solo che i mercati sembrano averlo scoperto oggi per cavalcarlo al ribasso. Nonostante finora – se si eccettua il caso dei quattro istituti di media dimensione finiti in amministrazione speciale – non si siano registrati casi di istituti finiti alle corde che abbiano avuto bisogno, come ovunque altrove, del soccorso di Stato.

I dati di bilancio – quelli raccolti e riclassificati da R&S-Mediobanca – raccontano, insomma, una realtà complessa, ma distante dall’immagine dipinta dalla speculazione. Gli ultimi, quelli relativi alle relazioni dei primi nove mesi del 2015, evidenziano appunto – con le inevitabili differenziazioni – una situazione relativamente sotto controllo. Gli accantonamenti a fronte dell’ammontare lordo complessivo dei crediti difficili (incagli, sofferenze, scaduti e ristrutturati) arrivano appunto al 51% per le banche quotate italiane. Lo stesso parametro di copertura nel caso dei 21 big europei del credito (incluse anche Intesa e UniCredit) si ferma – al primo semestre dell’anno scorso – al 44,8%.

Se si aggiungono le garanzie (nel caso in cui il fair value del collaterale risulti superiore al valore del credito, ci si ferma a quest’ultimo), la copertura assicurata dalle banche quotate è dell’87,6%. A riguardo, non esiste la possibilità di un raffronto significativo a livello continentale, perchè la maggioranza degli istituti compresi nel gruppo esaminato non fornisce nei rendiconti di bilancio il dettaglio che per standard le banche italiane devono dare. La babele delle regole nei diversi Paesi ha reso finora ancora più complicata la lettura comparata della situazione. Per esempio, fino a non molto tempo fa – fino a quando cioè la Banca centrale spagnola non è intervenuta con una sua circolare – gli istituti iberici non includevano nel novero dei prestiti problematici i crediti ristrutturati, quelli cioè dove era stato già necessario fare una concessione al cliente in difficoltà.

È però se si va a confrontare l’incidenza delle partite deteriorate sul totale dei prestiti o sul capitale degli istituti che emergono chiaramente i contorni dell’ingolfamento che zavorra i bilanci delle banche tricolori. I crediti deteriorati netti (al netto cioè degli accontonamenti) pesano mediamente per l’11,3% sul totale dei crediti verso la clientela delle banche quotate a Piazza Affari e solo il 3,3% per i big europei, che sono in grado di smaltire più rapidamente le “partite perse”, facendole così scomparire dalla rappresentazione contabile. Analogamente, il peso sul patrimonio netto tangibile che è inferiore del 30% nel paniere continentale (29,3%) è del 106,7% per le quotate tricolori. Vale a dire che, anche tenuto conto degli accantonamenti, l’ammontare scoperto dei crediti problematici supera il valore del capitale degli istituti nostrani, depurati dagli avviamenti e altre poste immateriali.

È l’eredità avvelenata del passato, che balza agli occhi nei dati di sistema. Per l’insieme delle banche italiane le sole sofferenze (che dei crediti deteriorati, sono quelli messi peggio)si sono gonfiate – accumulandosi di anno in anno in un perverso effetto valanga – dai 42,8 miliardi del 2008 – primo anno di crisi – ai 195,3 miliardi di metà 2015, per arrivare a superare oggi quota 200 miliardi. La stessa Banca d’Italia – nella relazione annuale del 2015 – puntava il dito sui «tempi lunghi e le incertezze sugli esiti delle crisi di impresa» che «favoriscono l’accumulazione delle partite deteriorate nei bilanci degli intermediari e si riflettono negativamente sulla loro capacità di erogazione del credito». Insomma, oltre far sfiguare il sistema bancario nel confronto internazionale, il problema finisce per riflettersi anche sulla clientela in bonis, che ne fa le spese con i prestiti centellinati. Nell’ultima relazione annuale via Nazionale rilevava anche che «negli anni della crisi il numero di procedure concorsuali aperte (fallimentari e concordatarie) è significativamente aumentato». Per concludere infine – come si diceva – che «l’elevata consistenza delle partite deteriorate risente dei tempi di recupero dei crediti, significativamente più lunghi in Italia che all’estero».

Alla fine di tutto il processo il credito problematico, per la parte non recuperata, si trasforma in perdite che possono essere dedotte fiscalmente. Ma fino al 2012 ci volevano 18 anni – 18 bilanci – per metterci definitivamente una pietra sopra. Aggiunti i tempi di recupero della fase precedente – i famosi 7-8 anni di media – non era difficile cioè per le banche italiane trascorrere un quarto di secolo a piangere sul latte versato. A valere dall’esercizio 2015 quest’ulteriore anomalia nel quadro europeo è stata eliminata e almeno per il Fisco le partite perse, d’ora in poi, potranno essere digerite in un anno, come avviene già di prassi altrove.


Autore: Antonella Olivieri
Fonte:

Il Sole 24 Ore

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