Va interpretata in senso ampio la nozione di «bisogni della famiglia» che, in base allarticolo 170 del Codice civile, consentono lesecuzione sui beni del fondo patrimoniale . Lo sostiene il Tribunale di Reggio Emilia (giudice Gianluigi Morlini) in una sentenza della scorso 20 maggio.
La controversia scaturisce da unopposizione allesecuzione. Il debitore ha dedotto che gli immobili non potevano essere pignorati, essendo stati precedentemente conferiti, da lui e dalla moglie (intervenuta nel giudizio di opposizione), in un fondo patrimoniale. Secondo il creditore procedente, invece, il titolo esecutivo riguardava le necessità della famiglia.
Il Tribunale ricostruisce, innanzitutto, la vicenda che aveva portato allesecuzione. In un precedente processo, la moglie del debitore opponente aveva citato un promotore finanziario, affermando la falsità di firme a lei apparentemente riconducibili e relative a investimenti mobiliari. Il giudice aveva accertato che le sottoscrizioni erano apocrife, essendo state apposte dal marito della donna. Il promotore era stato quindi condannato a risarcire allattrice il danno, consistente nelle perdite dovute agli investimenti, ma al marito era stato imposto di tenere indenne il promotore per le somme pagate in esecuzione della sentenza. Così, contro lautore delle sottoscrizioni false, il promotore stesso ha iniziato lazione esecutiva, da cui è derivata lopposizione esaminata dal giudice emiliano.
Nel respingere la domanda, il Tribunale ricorda che grava sul debitore lonere di provare che il «creditore conosceva lestraneità del credito ai bisogni della famiglia». Ciò dal momento che come si legge nella sentenza 5684/2006 della Cassazione, richiamata in motivazione «i fatti negativi (in questo caso lignoranza) non possono formare oggetto di prova», ma anche «perché esiste una presunzione di inerenza dei debiti ai detti bisogni».
Secondo il giudice, di tali bisogni va data «uninterpretazione estremamente ampia», dal momento che il divieto contenuto nellarticolo 170 del Codice civile è norma eccezionale, e «come tale di stretta interpretazione, rispetto alla regola della piena responsabilità patrimoniale» dettata dallarticolo 2740 dello stesso Codice. Inoltre, rientrano tra i bisogni familiari le necessità dirette al «mantenimento dellarmonico sviluppo della famiglia, nonché prosegue il giudice emiliano, citando la sentenza 134/1984 della Corte suprema al potenziamento della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da intenti meramente speculativi».
Nel caso esaminato, gli elementi acquisiti nel precedente giudizio di cognizione consentono, secondo il Tribunale, di ritenere che il debito era stato assunto dallopponente per le necessità del nucleo familiare. Infatti, la donna aveva ammesso che le somme investite dal promotore costituivano i propri risparmi: si trattava dunque di sostanze che, in base allarticolo 143, comma 3, del Codice civile, contribuiscono a far fronte ai bisogni della famiglia. Esiste, quindi, una «coerenza tra il fatto generatore dellobbligazione» (la falsificazione delle firme) e tali esigenze. Per queste ragioni lopposizione è rigettata, con la condanna dei coniugi al pagamento di 7mila euro per spese di lite.
Autore: Antonino Porracciolo
Fonte:
Il Sole 24 Ore
La controversia scaturisce da unopposizione allesecuzione. Il debitore ha dedotto che gli immobili non potevano essere pignorati, essendo stati precedentemente conferiti, da lui e dalla moglie (intervenuta nel giudizio di opposizione), in un fondo patrimoniale. Secondo il creditore procedente, invece, il titolo esecutivo riguardava le necessità della famiglia.
Il Tribunale ricostruisce, innanzitutto, la vicenda che aveva portato allesecuzione. In un precedente processo, la moglie del debitore opponente aveva citato un promotore finanziario, affermando la falsità di firme a lei apparentemente riconducibili e relative a investimenti mobiliari. Il giudice aveva accertato che le sottoscrizioni erano apocrife, essendo state apposte dal marito della donna. Il promotore era stato quindi condannato a risarcire allattrice il danno, consistente nelle perdite dovute agli investimenti, ma al marito era stato imposto di tenere indenne il promotore per le somme pagate in esecuzione della sentenza. Così, contro lautore delle sottoscrizioni false, il promotore stesso ha iniziato lazione esecutiva, da cui è derivata lopposizione esaminata dal giudice emiliano.
Nel respingere la domanda, il Tribunale ricorda che grava sul debitore lonere di provare che il «creditore conosceva lestraneità del credito ai bisogni della famiglia». Ciò dal momento che come si legge nella sentenza 5684/2006 della Cassazione, richiamata in motivazione «i fatti negativi (in questo caso lignoranza) non possono formare oggetto di prova», ma anche «perché esiste una presunzione di inerenza dei debiti ai detti bisogni».
Secondo il giudice, di tali bisogni va data «uninterpretazione estremamente ampia», dal momento che il divieto contenuto nellarticolo 170 del Codice civile è norma eccezionale, e «come tale di stretta interpretazione, rispetto alla regola della piena responsabilità patrimoniale» dettata dallarticolo 2740 dello stesso Codice. Inoltre, rientrano tra i bisogni familiari le necessità dirette al «mantenimento dellarmonico sviluppo della famiglia, nonché prosegue il giudice emiliano, citando la sentenza 134/1984 della Corte suprema al potenziamento della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da intenti meramente speculativi».
Nel caso esaminato, gli elementi acquisiti nel precedente giudizio di cognizione consentono, secondo il Tribunale, di ritenere che il debito era stato assunto dallopponente per le necessità del nucleo familiare. Infatti, la donna aveva ammesso che le somme investite dal promotore costituivano i propri risparmi: si trattava dunque di sostanze che, in base allarticolo 143, comma 3, del Codice civile, contribuiscono a far fronte ai bisogni della famiglia. Esiste, quindi, una «coerenza tra il fatto generatore dellobbligazione» (la falsificazione delle firme) e tali esigenze. Per queste ragioni lopposizione è rigettata, con la condanna dei coniugi al pagamento di 7mila euro per spese di lite.
Autore: Antonino Porracciolo
Fonte:
Il Sole 24 Ore