In finanza non è come nelle favole. L’incontro tra una balena bianca e un cigno nero non è una delicata storia d’amore alla Walt Disney bensì l’evento che rischia di far saltare complicate operazioni speculative, generando perdite impreviste e incontrollabili. Questa è la morale dell’ennesimo caso di finanza spericolata venuto alla luce lo scorso fine settimana, allorché JP Morgan ha dichiarato perdite per almeno 2 miliardi di dollari in relazione a posizioni, definite di copertura, aperte da un trader soprannominato la balena londinese per l’imponenza delle operazioni in derivati di solito gestite per conto della banca. Secondo le spiegazioni offerte dal Ceo di JP Morgan, Jamie Dimon, le operazioni in questione si sono rivelate più rischiose e meno efficienti di quanto ci si potesse attendere.
È quello che accade tutte le volte in cui un evento raro, del tipo di quelli definiti dalla statistica come cigni neri, impatta su costruzioni finanziarie il cui equilibrio è sostenibile solo nei limiti di scenari ordinari, che non si discostano molto dalle medie sperimentate in passato.Nel caso in questione non è ben chiaro cosa non abbia funzionato nel modello probabilistico usato da JP Morgan. Né si conosce la possibile entità massima degli effetti, non potendosi escludere code di danni oggi difficilmente stimabili. Pare che le posizioni fossero in strumenti di copertura sull’insolvenza di debitori non meglio precisati, assimilabili ai ben noti cds (credit default swap) all’epicentro degli smottamenti dei mercati del biennio 2008-2009, quando la compagnia assicurativa Aig, poi salvata dal governo Usa, venne travolta per evidenti errori di calcolo sull’esposizione al rischio legato a quegli strumenti, venduti a piene mani a tutto il mondo. Se nel caso di specie l’evento catalizzatore è stato il riaccendersi della crisi sui debiti sovrani e se come è acclarato l’esposizione globale ai derivati (non solo cds ma di ogni tipo) è andata via via crescendo negli ultimi anni, non si osa immaginare cosa possa accadere nel caso di un ulteriore aggravamento delle tensioni sui debiti sovrani, con eventuale estensione, oltre che alle borse, anche ai mercati valutario e delle commodity (in particolare oro e petrolio), anch’essi oggetto di notevoli posizioni in derivati. Di certo anche questa volta l’annuncio di perdite da parte di un intermediario è legata a posizioni ad alto rischio assunte su strumenti finanziari spesso poco liquidi e trasparenti. Tre anni di tentate riforme non sono dunque serviti a impedire la crescita esponenziale di un mercato dei derivati in gran parte autoreferenziale. Se in Europa lo scorso marzo è stato quanto meno approvato il Regolamento Ue 236/2012, che vieta a privati investitori (tra cui anche banche) di detenere posizioni nette scoperte in cds aventi ad oggetto debito di entità sovrane dettando principi di trasparenza, a livello globale norme similari non sono state varate.
Negli Stati Uniti, nonostante il divieto di massima, formulato nel Dodd-Frank Act, per le operazioni speculative gestite in proprio dalle banche (cosiddetto proprietary trading), in assenza di stringenti norme di attuazione introdotte dalle Authority di settore, né per i derivati né per altre posizioni speculative può dirsi oggi adeguatamente contenuta l’esposizione al rischio delle banche. Sono dunque in circolazione, per volumi elevatissimi, cds e altri derivati che costituiscono uno dei territori di caccia preferiti, non solo delle banche ma anche della cosiddetta finanza ombra, costituita da una pluralità di soggetti, rapporti e prodotti non regolamentati e quindi oscuri. Sia la finanza ombra che quella regolamentata, che non ha mai troncato le interconnessioni con la prima, restano dunque esposte a un’alea difficilmente calcolabile. E se i portafogli a rischio assumono le dimensioni di una balena, qualsiasi cigno nero che venga a posarsi sul dorso del cetaceo può generare non solo perdite a carico dell’intermediario imprudente ma, a cascata, effetti che possono diventare dirompenti.
È ormai tempo, prima dell’inevitabile deflagrazione dei mercati, che a tutto ciò si ponga rimedio. Se pure qualsiasi intervento volto per limitare la portata del fenomeno rischia oggi di essere tardivo, a maggiore ragione sarebbe necessario studiare in via preventiva meccanismi idonei a contenere i possibili effetti negativi che possono colpire i mercati nel caso di nuove turbolenze. L’ordinamento e la collettività non possono più accettare simili perversioni, soprattutto se si pensa che spesso le risorse utilizzate per tali operazioni sono state acquisite sotto forma di aiuti di Stato o di prestiti provenienti da banche centrali, e per questo sottratte ad altri interventi pubblici.
Autore: Roberto Maviglia
Fonte:
Milano Finanza
In finanza non è come nelle favole. L’incontro tra una balena bianca e un cigno nero non è una delicata storia d’amore alla Walt Disney bensì l’evento che rischia di far saltare complicate operazioni speculative, generando perdite impreviste e incontrollabili. Questa è la morale dell’ennesimo caso di finanza spericolata venuto alla luce lo scorso fine settimana, allorché JP Morgan ha dichiarato perdite per almeno 2 miliardi di dollari in relazione a posizioni, definite di copertura, aperte da un trader soprannominato la balena londinese per l’imponenza delle operazioni in derivati di solito gestite per conto della banca. Secondo le spiegazioni offerte dal Ceo di JP Morgan, Jamie Dimon, le operazioni in questione si sono rivelate più rischiose e meno efficienti di quanto ci si potesse attendere.
È quello che accade tutte le volte in cui un evento raro, del tipo di quelli definiti dalla statistica come cigni neri, impatta su costruzioni finanziarie il cui equilibrio è sostenibile solo nei limiti di scenari ordinari, che non si discostano molto dalle medie sperimentate in passato.Nel caso in questione non è ben chiaro cosa non abbia funzionato nel modello probabilistico usato da JP Morgan. Né si conosce la possibile entità massima degli effetti, non potendosi escludere code di danni oggi difficilmente stimabili. Pare che le posizioni fossero in strumenti di copertura sull’insolvenza di debitori non meglio precisati, assimilabili ai ben noti cds (credit default swap) all’epicentro degli smottamenti dei mercati del biennio 2008-2009, quando la compagnia assicurativa Aig, poi salvata dal governo Usa, venne travolta per evidenti errori di calcolo sull’esposizione al rischio legato a quegli strumenti, venduti a piene mani a tutto il mondo. Se nel caso di specie l’evento catalizzatore è stato il riaccendersi della crisi sui debiti sovrani e se come è acclarato l’esposizione globale ai derivati (non solo cds ma di ogni tipo) è andata via via crescendo negli ultimi anni, non si osa immaginare cosa possa accadere nel caso di un ulteriore aggravamento delle tensioni sui debiti sovrani, con eventuale estensione, oltre che alle borse, anche ai mercati valutario e delle commodity (in particolare oro e petrolio), anch’essi oggetto di notevoli posizioni in derivati. Di certo anche questa volta l’annuncio di perdite da parte di un intermediario è legata a posizioni ad alto rischio assunte su strumenti finanziari spesso poco liquidi e trasparenti. Tre anni di tentate riforme non sono dunque serviti a impedire la crescita esponenziale di un mercato dei derivati in gran parte autoreferenziale. Se in Europa lo scorso marzo è stato quanto meno approvato il Regolamento Ue 236/2012, che vieta a privati investitori (tra cui anche banche) di detenere posizioni nette scoperte in cds aventi ad oggetto debito di entità sovrane dettando principi di trasparenza, a livello globale norme similari non sono state varate.
Negli Stati Uniti, nonostante il divieto di massima, formulato nel Dodd-Frank Act, per le operazioni speculative gestite in proprio dalle banche (cosiddetto proprietary trading), in assenza di stringenti norme di attuazione introdotte dalle Authority di settore, né per i derivati né per altre posizioni speculative può dirsi oggi adeguatamente contenuta l’esposizione al rischio delle banche. Sono dunque in circolazione, per volumi elevatissimi, cds e altri derivati che costituiscono uno dei territori di caccia preferiti, non solo delle banche ma anche della cosiddetta finanza ombra, costituita da una pluralità di soggetti, rapporti e prodotti non regolamentati e quindi oscuri. Sia la finanza ombra che quella regolamentata, che non ha mai troncato le interconnessioni con la prima, restano dunque esposte a un’alea difficilmente calcolabile. E se i portafogli a rischio assumono le dimensioni di una balena, qualsiasi cigno nero che venga a posarsi sul dorso del cetaceo può generare non solo perdite a carico dell’intermediario imprudente ma, a cascata, effetti che possono diventare dirompenti.
È ormai tempo, prima dell’inevitabile deflagrazione dei mercati, che a tutto ciò si ponga rimedio. Se pure qualsiasi intervento volto per limitare la portata del fenomeno rischia oggi di essere tardivo, a maggiore ragione sarebbe necessario studiare in via preventiva meccanismi idonei a contenere i possibili effetti negativi che possono colpire i mercati nel caso di nuove turbolenze. L’ordinamento e la collettività non possono più accettare simili perversioni, soprattutto se si pensa che spesso le risorse utilizzate per tali operazioni sono state acquisite sotto forma di aiuti di Stato o di prestiti provenienti da banche centrali, e per questo sottratte ad altri interventi pubblici.
Autore: Roberto Maviglia
Fonte:
Milano Finanza