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Così i rating strozzano le imprese

Continuano ad arrivare nuove segnalazioni a MF-Milano Finanza da parte di imprese attive all’estero che si sono trovate in difficoltà dopo i downgrade a catena sulle banche italiane, dovuti al taglio del rating sovrano sull’Italia operato nelle ultime settimane da Standard & Poor’s e Moody’s. Numerose aziende hanno ricevuto in questi giorni lettere con cui le controparti commerciali estere chiedono di rafforzare le garanzie, perché le attuali (fornite attraverso banche downgradate) non sono più considerate sufficienti. Il problema può comportare la chiusura dei rapporti commerciali o l’aumento del costo delle garanzie, per le quali le aziende italiane devono ora rivolgersi a istituti esteri (perché tutti i gruppi italiani hanno perso la A di S&P).

Ciò costituisce un ulteriore esempio di come i rating, nonostante gli effetti sempre minori sulle borse, possano ancora influenzare l’operatività di banche e imprese (e non solo per i maggiori costi di finanziamento). Inoltre la questione evidenzia la necessità di una riforma del sistema finanziario, che metta al bando gli automatismi legati ai downgrade a catena delle agenzie.Il problema, come già segnalato da MF-Milano Finanza lo scorso 15 febbraio, riguarda le imprese che operano all’estero e hanno relazioni con controparti straniere. Si consideri l’esempio di una società italiana che compra materie prime in Norvegia o Russia.

La transazione è spesso legata a una garanzia bancaria che assicura parte del valore (circa un quarto o un terzo del totale). Quando si tratta di accordi di fornitura annuali con pagamenti mensili, la banca assicura l’impresa estera contro l’insolvenza dell’azienda italiana. Questo tipo di attività è fondamentale soprattutto per le pmi, che senza le garanzie bancarie si ritroverebbero di fatto tagliate fuori dai mercati esteri. Per questo motivo tutti i principali gruppi bancari forniscono il servizio di «bondistica». Ma il meccanismo si è inceppato con il taglio dei rating sulle banche italiane, legato al downgrade sull’Italia. Il giudizio sovrano è stato portato da S&P a BBB+: l’agenzia ha poi abbassato allo stesso livello il rating delle banche che fino a quel momento avevano un giudizio superiore (tra queste, Intesa, Unicredit, Mediobanca, Ubi e Bnl), ma la revisione ha riguardato anche altri istituti con rating più basso (in tutto 34 banche italiane).

L’ultimo downgrade di massa di S&P, in particolare, ha avuto effetti più rilevanti dei precedenti perché ha comportato la perdita della A, considerata da molti operatori come standard per le garanzie. In certi casi questo tetto è fissato addirittura da accordi internazionali, come accade per quelli energetici Efet. Le imprese si ritrovano così da un giorno all’altro senza garanzia efficace nei contratti. Che cosa implica questa situazione? Tutto dipende dalla valutazione di ogni singola azienda-banca estera. Secondo quanto segnalato, per ora i rapporti vanno avanti ma con precisazioni poco rassicuranti da parte dei gruppi stranieri: i contratti non sono interrotti, ma viene precisato che, senza il reintegro delle garanzie, potrebbero essere in futuro bloccati senza preavviso.Una tale minaccia non passa certo inosservata. Gli imprenditori hanno iniziato a muoversi nei confronti delle banche. Gli istituti, a loro volta presi in contropiede, stanno verificando la situazione (a volte a spese dalle imprese).

Una prima soluzione individuata è quella di effettuare una controgaranzia con una banca estere con rating superiore: ma questo passaggio ha un costo per le aziende. Una garanzia costa in genere l’1-2% dell’importo: per una controgaranzia bisogna aggiungere un altro 0,5-1%. Insomma, il costo complessivo per la bondistica aumenta in media del 50-60%, senza considerare le spese aggiuntive e il tempo perso. Alcuni imprenditori hanno fatto notare la velocità di adeguamento ai nuovi rating: alcune lettere sono partite già nel primo giorno lavorativo successivo al downgrade. Ma non si tratta di eccezioni, perché in molti settori e per molte imprese il rischio di credito è quello principale, dunque è anche quello più controllato.La casistica possibile, peraltro, è molto più ampia rispetto a quella finora descritta. Oltre al caso più semplice, quello che riguarda le garanzie di pagamento, ce ne sono altri che riguardano particolari assicurazioni legate agli anticipi nelle commesse (advance payment bond) o alla qualità dei lavori promessi secondo contratto (performance bond).

Insomma, l’effetto rating sta coinvolgendo un gran numero di aziende, anche su tipologie di contratti molto diverse tra loro. Si tratta di imprese che non hanno legami diretti con il mondo dei rating, ma pagano comunque le conseguenze di un sistema che ne abusa. In fondo, si osserva, è proprio necessario affidarsi alle agenzie per valutare una garanzia fornita da grandi banche internazionali come Intesa e Unicredit? La soluzione auspicata dalle imprese è un minore affidamento degli operatori ai giudizi esterni, oltre all’eliminazione dei rating (o a un aggiornamento, nella peggiore delle ipotesi) dalle regolamentazioni e dagli standard internazionali. Qualcosa del genere è già avvenuto in Italia nella Borsa elettrica o dopo gli adeguamenti di Assogestioni sui fondi monetari: ma queste sono soluzioni solo a livello locale, che non sciolgono i nodi di sistema. Su questi ultimi, sta lavorando il Parlamento Europeo (si veda altro articolo in pagina): gli eurodeputati stanno provando a ridurre gli automatismi innescati dalle agenzie. Nel frattempo però anche le piccole e medie aziende attive nei mercati internazionali continuano a pagare il conto dovuto all’eccessiva dipendenza dai rating.


Autore: Francesco Ninfole
Fonte:

Milano Finanza

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