C’è chi li considera gli strumenti del futuro, quelli che le banche utilizzeranno sempre più spesso per adeguare il patrimonio alle indicazioni di Basilea 3, e chi invece teme le trappole letali che si potrebbero celare dietro l’ennesima diavoleria finanziaria.
L’unica cosa certa, per ora, è che i CoCo bond sono al centro dell’attenzione e probabilmente lo saranno ancor di più dopo la maxi-emissione da 6 miliardi di franchi svizzeri (circa 4,6 miliardi di euro) architettata ieri da Credit Suisse: un’operazione che potrebbe sbloccare un mercato potenzialmente esplosivo, sul quale molti continuano però a nutrire seri dubbi. Dietro a una sigla che di per sé richiamerebbe mete esotiche (e che significa contingent convertible) si celano in realtà obbligazioni ibride che saranno automaticamente trasformate in azioni nel momento in cui i requisiti patrimoniali della banca emittente dovessero scendere sotto un livello prefissato.
I titoli che Credit Suisse emetterà dall’ottobre 2013, per esempio, saranno di tipo perpetuo (non avranno cioè scadenza) e saranno convertiti in azioni a un prezzo massimo di 20 franchi se il Tier 1 del gruppo elvetico dovesse scendere sotto il livello del 7% individuato da Basilea 3. Si tratta, in pratica, di un meccanismo automatico che permette di ricapitalizzare le banche che dovessero trovarsi in difficoltà. Ed è soprattutto per questo motivo che i CoCo bond sono ben visti da banche centrali e regulator, che da tempo spingono le banche ad adottarli. Sostituire o integrare il capitale ibrido degli istituti di credito con questi strumenti significherebbe infatti far ricadere il costo di salvataggi futuri sugli investitori privati e non sulle finanze pubbliche come negli ultimi 3 anni.
Non per niente è il pressing della stessa Banca nazionale svizzera ad aver convinto Credit Suisse, che punta a ripetere l’esperienza e a emettere fino a 30 miliardi da qui al 2019. Visto in prospettiva, il mercato dei CoCo bond, ha potenzialità enormi: uno studio recente di Barclays Capital calcola che se le banche europee utilizzassero i contingent convertible per mettersi al passo con Basilea 3 servirebbero emissioni per 500 miliardi di euro da qui al 2013 e ulteriori 200 miliardi entro il 2018.
Una cifra enorme, che potrebbe toccare anche gli istituti italiani: Intesa Sanpaolo (7,9 miliardi secondo le stime Barclays), UniCredit (7,5 miliardi), Mps (4,8 miliardi) e Ubi (3,6 miliardi). Ma non tutti sono convinti che questo tipo di strumento possa decollare: gli scettici si chiedono infatti chi acquisterà questa valanga di titoli, mentre altri analisti fanno notare come il prezzo e le condizioni dei CoCo bond non siano poi così gradite alle stesse banche emittenti. «Per i manager di una banca – sottolinea Alessandro Lasagna, partner di Algebris Investments – è come una spada di Damocle: se sbagliano e fanno scattare le condizioni per la conversione corrono il rischio di trovarsi nel capitale nuovi soci che potrebbero non essere graditi».
Anche il costo elevato può in teoria funzionare da deterrente, ma l’operazione Credit Suisse, sotto questo aspetto, appare da manuale: la banca elvetica ha siglato un accordo con il fondo sovrano del Qatar e con la famiglia saudita Olayan, che già sono soci (con quote attorno al 6%) e sono intervenuti con un’iniezione da 10 miliardi di franchi nel 2008. Se la clausola penalizzante dovesse scattare, si ritroverebbe quindi facce conosciute nel board. Il fatto che il collocamento sia stato effettuato in forma privata ha inoltre permesso a Credit Suisse di spuntare rendimenti (9% e 9,5%) inferiori agli strumenti di capitale ibrido (10%-11%) che andrà a rimpiazzare. Non sempre si potranno ripetere le stesse condizioni (quello di Credit Suisse, in fondo, è il secondo Coco «puro» dopo Lloyd’s), ma molti investitori sono pronti a scommettere sul futuro di questi strumenti.
Prova ne sia che big del calibro di Blackrock e Pimco hanno da tempo costituito team dedicati e anche la stessa Algebris, dopo aver investito nel CoCo di Lloyds, è in attesa dell’autorizzazione per il lancio di un fondo su questa asset class. «In Svizzera e Gran Bretagna ci sono già banche prossime a emettere CoCo bond e anche in Francia la normativa è quasi pronta», aggiunge Lasagna. L’Italia, invece, è ancora indietro: «Da noi la banca che emette questi strumenti – spiega – non può detrarre gli interessi sulle cedole e questo rappresenta un forte disincentivo». Occorre agire in fretta se si vuole restare al passo co i tempi di Basilea 3.
Autore: Maximilian Cellino
Fonte: Il Sole 24 ore
C’è chi li considera gli strumenti del futuro, quelli che le banche utilizzeranno sempre più spesso per adeguare il patrimonio alle indicazioni di Basilea 3, e chi invece teme le trappole letali che si potrebbero celare dietro l’ennesima diavoleria finanziaria.
L’unica cosa certa, per ora, è che i CoCo bond sono al centro dell’attenzione e probabilmente lo saranno ancor di più dopo la maxi-emissione da 6 miliardi di franchi svizzeri (circa 4,6 miliardi di euro) architettata ieri da Credit Suisse: un’operazione che potrebbe sbloccare un mercato potenzialmente esplosivo, sul quale molti continuano però a nutrire seri dubbi. Dietro a una sigla che di per sé richiamerebbe mete esotiche (e che significa contingent convertible) si celano in realtà obbligazioni ibride che saranno automaticamente trasformate in azioni nel momento in cui i requisiti patrimoniali della banca emittente dovessero scendere sotto un livello prefissato.
I titoli che Credit Suisse emetterà dall’ottobre 2013, per esempio, saranno di tipo perpetuo (non avranno cioè scadenza) e saranno convertiti in azioni a un prezzo massimo di 20 franchi se il Tier 1 del gruppo elvetico dovesse scendere sotto il livello del 7% individuato da Basilea 3. Si tratta, in pratica, di un meccanismo automatico che permette di ricapitalizzare le banche che dovessero trovarsi in difficoltà. Ed è soprattutto per questo motivo che i CoCo bond sono ben visti da banche centrali e regulator, che da tempo spingono le banche ad adottarli. Sostituire o integrare il capitale ibrido degli istituti di credito con questi strumenti significherebbe infatti far ricadere il costo di salvataggi futuri sugli investitori privati e non sulle finanze pubbliche come negli ultimi 3 anni.
Non per niente è il pressing della stessa Banca nazionale svizzera ad aver convinto Credit Suisse, che punta a ripetere l’esperienza e a emettere fino a 30 miliardi da qui al 2019. Visto in prospettiva, il mercato dei CoCo bond, ha potenzialità enormi: uno studio recente di Barclays Capital calcola che se le banche europee utilizzassero i contingent convertible per mettersi al passo con Basilea 3 servirebbero emissioni per 500 miliardi di euro da qui al 2013 e ulteriori 200 miliardi entro il 2018.
Una cifra enorme, che potrebbe toccare anche gli istituti italiani: Intesa Sanpaolo (7,9 miliardi secondo le stime Barclays), UniCredit (7,5 miliardi), Mps (4,8 miliardi) e Ubi (3,6 miliardi). Ma non tutti sono convinti che questo tipo di strumento possa decollare: gli scettici si chiedono infatti chi acquisterà questa valanga di titoli, mentre altri analisti fanno notare come il prezzo e le condizioni dei CoCo bond non siano poi così gradite alle stesse banche emittenti. «Per i manager di una banca – sottolinea Alessandro Lasagna, partner di Algebris Investments – è come una spada di Damocle: se sbagliano e fanno scattare le condizioni per la conversione corrono il rischio di trovarsi nel capitale nuovi soci che potrebbero non essere graditi».
Anche il costo elevato può in teoria funzionare da deterrente, ma l’operazione Credit Suisse, sotto questo aspetto, appare da manuale: la banca elvetica ha siglato un accordo con il fondo sovrano del Qatar e con la famiglia saudita Olayan, che già sono soci (con quote attorno al 6%) e sono intervenuti con un’iniezione da 10 miliardi di franchi nel 2008. Se la clausola penalizzante dovesse scattare, si ritroverebbe quindi facce conosciute nel board. Il fatto che il collocamento sia stato effettuato in forma privata ha inoltre permesso a Credit Suisse di spuntare rendimenti (9% e 9,5%) inferiori agli strumenti di capitale ibrido (10%-11%) che andrà a rimpiazzare. Non sempre si potranno ripetere le stesse condizioni (quello di Credit Suisse, in fondo, è il secondo Coco «puro» dopo Lloyd’s), ma molti investitori sono pronti a scommettere sul futuro di questi strumenti.
Prova ne sia che big del calibro di Blackrock e Pimco hanno da tempo costituito team dedicati e anche la stessa Algebris, dopo aver investito nel CoCo di Lloyds, è in attesa dell’autorizzazione per il lancio di un fondo su questa asset class. «In Svizzera e Gran Bretagna ci sono già banche prossime a emettere CoCo bond e anche in Francia la normativa è quasi pronta», aggiunge Lasagna. L’Italia, invece, è ancora indietro: «Da noi la banca che emette questi strumenti – spiega – non può detrarre gli interessi sulle cedole e questo rappresenta un forte disincentivo». Occorre agire in fretta se si vuole restare al passo co i tempi di Basilea 3.
Autore: Maximilian Cellino
Fonte: Il Sole 24 ore