«Se ti devo un dollaro io ho un problema, ma se ti devo un milione di dollari allora il problema è tuo». Quando John Maynard Keynes inventò questa massima, non avrebbe mai immaginato che circa un secolo dopo il mondo occidentale sarebbe affogato nei debiti. Secondo le stime del «Sole 24 Ore», usando vari studi e banche dati, se si sommano i debiti totali (pubblici e privati) di Stati Uniti, area euro, Gran Bretagna, Giappone e Canada si arriva infatti oggi a una cifra quasi difficile da pronunciare: 130mila miliardi di dollari. Per intenderci: due volte il Pil mondiale. O due volte e mezza la capitalizzazione di tutte le Borse del globo. Questo è il male che affligge i mercati: una zavorra che incatena stati, banche, imprese e famiglie. Gli uni finanziano gli altri e viceversa: debitori e creditori hanno lo stesso volto. Eppure solo l’Europa, o meglio alcuni paesi del Vecchio continente, sono colpiti dalla speculazione: salgono i rendimenti dei titoli di stato,s’impennano le polizze anti-default, cadono le Borse. Gli Stati Uniti, che hanno 55mila miliardi di debiti pubblici e privati, sono anzi visti come rifugio. Un paradosso? In parte sì, ma un motivo c’è: sebbene il problema sia comune, tutti pensano che gli Usa abbiano molte più risorse per reagire. Bersaglio: Europa La speculazione ha colpito l’area euro – che ha debiti totali per 40mila miliardi $ – perché soffre di un cronico problema: ha da anni una moneta unica, ma non un’unità politica. «Questo rende più difficoltoso il coordinamento delle politiche monetarie e fiscali – osserva Johannes Mueller, economista di Dws (Deutsche Bank) –.La Fed ha comprato i titoli di Stato Usa e la Banca d’Inghilterra quelli britannici, ma la Bce non ha fatto nulla di tutto ciò». I nodi di un’opera incompiuta stanno insomma venendo al pettine. Ecco perché la crisi nata negli Usa sta colpendo l’Europa. I primi a soffrire sono i paesi ritenuti più vulnerabili. Prima è toccato alla Grecia, quando ha svelato che i suoi bilanci non erano come li aveva sempre mostrati. Così, sebbene la penisola ellenica avesse il sistema bancario più piccolo (gli attivi complessivi raggiungono a mala pena il 150% del Pil) e non avesse una bolla immobiliare (il mattone rappresenta meno del 10% del Pil), è finita subito nella bufera dei mercati. Bufera che le ha impedito di rifinanziare i debiti se non a costi proibitivi. E che, anche dopo il salvataggio, continua a imperversare: non a caso i Cds di Atene stanno ora sui 940 punti base. Alta tensione. Evidentemente il mercato ritiene che il salvataggio di Atene non basti, perché ci sono altri paesi con squilibri. Ad esempio Portogallo, Spagna e Irlanda. Madrid e Dublino hanno vissuto la grande bolla speculativa immobiliare, con la conseguenza che oggi le famiglie hanno un debito rispettivamente pari al 130% e al 200% del loro reddito. Questo zavorra un’economia che era abituata – grazie soprattutto a una “droga” immobiliare –a correre.A ben vedere, anche la Gran Bretagna (che a fine 2008 McKinsey stimava con un debito totale quattro volte e mezzo superiore al Pil) appare vulnerabile. La catena di Sant’Antonio Il problema dell’elevato debito è il rifinanziamento: fin che si trovano investitori disposti a comprare obbligazioni e a prestare soldi, tutto va bene. Ma se gli investitori sono a loro volta indebitati, il meccanismo diventa più farraginoso. Prendiamo le banche. Da un lato sono tra i principali acquirenti di titoli di stato, cioè sono tra i principali finanziatori dei governi. Tanto che oggi quelle europee sono zeppe di titoli di stato di Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. Ecco perché crollano in borsa. D’altro canto – però – le stesse banche hanno a loro volta una leva finanziaria eccessiva, tanto che molte sono sta-te salvate dagli stati stessi. Insomma: io salvo te, tu salvi me. Idem per le famiglie. Sono loro a comprare titoli di stato e obbligazioni aziendali – anche attraverso i fondi – e a depositare i risparmi in banca. Ma in molti paesi sono le stesse famiglie ad essere oberate dai debiti concessi dalle stesse banche. Magari – e il cerchio si chiude – da quelle salvate dagli stati. Preoccupa quindi il fatto che il tasso di risparmio mondiale (stimato dal Fmi) sia in calo del 15,1% nel 2009: significa che le famiglie hanno meno soldi da parte e, dunque, meno soldi da investire in titoli di Stato e in banca. Il cappio del debito si stringe. Restano poi i prestatori di ultima istanza: le Banche centrali. Non a caso oggi viene invocata la Bce. «Exit strategy» Come uscirne? La risposta è quasi banale: bisogna ridurre i debiti. Il problema è che la cura dimagrante non è facile: provoca rallentamenti economici, squilibri sociali. McKinsey qualche mese fa ha effettuato uno studio per vedere le conseguenze, dagli anni ’30 a oggi, di massicce riduzioni dei debiti. Nella storia è accaduto 45 volte. Nella maggior parte dei casi il fenomeno ha causato recessione: «Se accadesse ora – scrive McKinsey – il Pil si contrarrebbe per i primi due o tre anni prima di ripartire». In alcuni casi la riduzione dei debiti ha causato massicci default o alta inflazione. Oppure – ma solo in casi rari – una nuova crescita del Pil.
Autore: Morya Longo
Fonte: Il Sole 24 Ore
«Se ti devo un dollaro io ho un problema, ma se ti devo un milione di dollari allora il problema è tuo». Quando John Maynard Keynes inventò questa massima, non avrebbe mai immaginato che circa un secolo dopo il mondo occidentale sarebbe affogato nei debiti. Secondo le stime del «Sole 24 Ore», usando vari studi e banche dati, se si sommano i debiti totali (pubblici e privati) di Stati Uniti, area euro, Gran Bretagna, Giappone e Canada si arriva infatti oggi a una cifra quasi difficile da pronunciare: 130mila miliardi di dollari. Per intenderci: due volte il Pil mondiale. O due volte e mezza la capitalizzazione di tutte le Borse del globo. Questo è il male che affligge i mercati: una zavorra che incatena stati, banche, imprese e famiglie. Gli uni finanziano gli altri e viceversa: debitori e creditori hanno lo stesso volto. Eppure solo l’Europa, o meglio alcuni paesi del Vecchio continente, sono colpiti dalla speculazione: salgono i rendimenti dei titoli di stato,s’impennano le polizze anti-default, cadono le Borse. Gli Stati Uniti, che hanno 55mila miliardi di debiti pubblici e privati, sono anzi visti come rifugio. Un paradosso? In parte sì, ma un motivo c’è: sebbene il problema sia comune, tutti pensano che gli Usa abbiano molte più risorse per reagire. Bersaglio: Europa La speculazione ha colpito l’area euro – che ha debiti totali per 40mila miliardi $ – perché soffre di un cronico problema: ha da anni una moneta unica, ma non un’unità politica. «Questo rende più difficoltoso il coordinamento delle politiche monetarie e fiscali – osserva Johannes Mueller, economista di Dws (Deutsche Bank) –.La Fed ha comprato i titoli di Stato Usa e la Banca d’Inghilterra quelli britannici, ma la Bce non ha fatto nulla di tutto ciò». I nodi di un’opera incompiuta stanno insomma venendo al pettine. Ecco perché la crisi nata negli Usa sta colpendo l’Europa. I primi a soffrire sono i paesi ritenuti più vulnerabili. Prima è toccato alla Grecia, quando ha svelato che i suoi bilanci non erano come li aveva sempre mostrati. Così, sebbene la penisola ellenica avesse il sistema bancario più piccolo (gli attivi complessivi raggiungono a mala pena il 150% del Pil) e non avesse una bolla immobiliare (il mattone rappresenta meno del 10% del Pil), è finita subito nella bufera dei mercati. Bufera che le ha impedito di rifinanziare i debiti se non a costi proibitivi. E che, anche dopo il salvataggio, continua a imperversare: non a caso i Cds di Atene stanno ora sui 940 punti base. Alta tensione. Evidentemente il mercato ritiene che il salvataggio di Atene non basti, perché ci sono altri paesi con squilibri. Ad esempio Portogallo, Spagna e Irlanda. Madrid e Dublino hanno vissuto la grande bolla speculativa immobiliare, con la conseguenza che oggi le famiglie hanno un debito rispettivamente pari al 130% e al 200% del loro reddito. Questo zavorra un’economia che era abituata – grazie soprattutto a una “droga” immobiliare –a correre.A ben vedere, anche la Gran Bretagna (che a fine 2008 McKinsey stimava con un debito totale quattro volte e mezzo superiore al Pil) appare vulnerabile. La catena di Sant’Antonio Il problema dell’elevato debito è il rifinanziamento: fin che si trovano investitori disposti a comprare obbligazioni e a prestare soldi, tutto va bene. Ma se gli investitori sono a loro volta indebitati, il meccanismo diventa più farraginoso. Prendiamo le banche. Da un lato sono tra i principali acquirenti di titoli di stato, cioè sono tra i principali finanziatori dei governi. Tanto che oggi quelle europee sono zeppe di titoli di stato di Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. Ecco perché crollano in borsa. D’altro canto – però – le stesse banche hanno a loro volta una leva finanziaria eccessiva, tanto che molte sono sta-te salvate dagli stati stessi. Insomma: io salvo te, tu salvi me. Idem per le famiglie. Sono loro a comprare titoli di stato e obbligazioni aziendali – anche attraverso i fondi – e a depositare i risparmi in banca. Ma in molti paesi sono le stesse famiglie ad essere oberate dai debiti concessi dalle stesse banche. Magari – e il cerchio si chiude – da quelle salvate dagli stati. Preoccupa quindi il fatto che il tasso di risparmio mondiale (stimato dal Fmi) sia in calo del 15,1% nel 2009: significa che le famiglie hanno meno soldi da parte e, dunque, meno soldi da investire in titoli di Stato e in banca. Il cappio del debito si stringe. Restano poi i prestatori di ultima istanza: le Banche centrali. Non a caso oggi viene invocata la Bce. «Exit strategy» Come uscirne? La risposta è quasi banale: bisogna ridurre i debiti. Il problema è che la cura dimagrante non è facile: provoca rallentamenti economici, squilibri sociali. McKinsey qualche mese fa ha effettuato uno studio per vedere le conseguenze, dagli anni ’30 a oggi, di massicce riduzioni dei debiti. Nella storia è accaduto 45 volte. Nella maggior parte dei casi il fenomeno ha causato recessione: «Se accadesse ora – scrive McKinsey – il Pil si contrarrebbe per i primi due o tre anni prima di ripartire». In alcuni casi la riduzione dei debiti ha causato massicci default o alta inflazione. Oppure – ma solo in casi rari – una nuova crescita del Pil.
Autore: Morya Longo
Fonte: Il Sole 24 Ore